Schegge di vita di un illuministaromantico

In questi scritti vi sono situazioni, persone, realtà, emozioni, sensazioni che ho realmente vissuto ed altre che desidererei vivere ritenendole assolutamente realizzabili (lascio al lettore di discernere le une dalle altre).

 

Le ragioni che mi hanno spinto a descriverle sono essenzialmente due:

1)      l’egoistica speranza che tra i lettori vi possa essere qualcuno che mi possa aiutare a trasformare in realtà tutte quelle parti che sono frutto solo della mia fantasia;

2)      la vacua soddisfazione derivante dalla vanitosa ostentazione delle incredibili situazioni che ho avuto la fortuna di vivere e assaporare.

 

I racconti non sono posti in ordine di contiguità logica o cronologica.

Alcuni sono tra loro legati, altri risultano del tutto autonomi e sconnessi. Ma tale frammentarietà è del tutto apparente. In realtà ognuno di questi racconti e fantasticherie è legato agli altri da un minimo comun denominatore. Lascio al lettore di individuare questo elemento comune che, dopo aver terminato di leggere il libro, risulterà più che evidente ad alcuni e del tutto estraneo agli altri.

I primi sono degli illuministiromantici, i secondi certamente no.

 

L

Era un pomeriggio infrasettimanale della fine di luglio e come al solito ero passato a trovare Aldo in gelateria, stavo seduto sulla panchina appoggiata al muro chiaccherando/fantasticando con lui quando improvvisamente si ferma una Mercedes 600 blu scuro da cui scendono tre persone:

un uomo sulla cinquantina  con un vestito  grigio scurissimo (preparato da un sarto la cui sicurezza e naturalezza nel tagliarlo era quasi pari a quella da lui trasmessa nell’indossarlo), camicia bianca, cravatta scura e con capelli spruzzati di grigio;

una ragazza, con capelli corti biondi e lineamenti che richiamavano in maniera inequivocabile quelli della persona precedentemente descritta, che indossava un tailleur molto formale dal quale comunque traspariva un carattere ed una personalità non convenzionali confermati da un anello in titanio che portava al mignolo della mano destra;

il terzo personaggio era un tipo allampanato che, al contrario degli altri due, appariva più vittima che padrone del proprio abito (che si vedeva era stato acquistato insieme alle scarpe da non più di 48 ore, prova di ciò il filo bianco da imbastitura che penzolava dall’unica delle due tasche che era stata aperta e la riga del pantalone ancora scolpita).

 

Il primo personaggio si avvicina al bancone di Aldo e ordina, dopo una brevissima consultazione in tedesco con gli altri, (più che una consultazione era una sorta di ulteriore conferma di decisioni già precedentemente concordate) tre coppette da 3000 lire indicando con il dito i gusti: crema und pista… zien termina la frase Aldo come ormai quasi sempre fa con i turisti tedeschi (con una sorta di automatismo che inconsciamente attua allo scopo sia di trarre di impaccio il turista dal difficile esercizio di pronuncia che la parola pistacchio comporta, sia fornire quell’ulteriore ingrediente che differenzia il gelato servito in Italia da quello servito in Germania: “scanzonata ironica allegria”).

Mentre Aldo preparava i gelati io avevo già raggiunto la cassa per poter battere lo scontrino (cosa che spesso facevo  per potere assumere un ruolo ufficiale all’interno della gelateria)  ma al contrario di quanto mi aspettassi vedo avvicinarsi, anziché l’uomo con abito del germancaraceni, quella che senza nessun dubbio doveva esserne la figlia; batto con fare deciso lo scontrino (atteggiamento tipico di chi deve nascondere la sua mancanza di professionalità) e mentre sto per porgeglierlo, il mio sguardo  incrocia il suo, stabilendo un contatto dal quale si origina istantaneamente un flusso bidirezionale di informazioni, preceduto  dall’invio reciproco di tutti i codici di accesso: chiunque ci avesse osservato in quel momento avrebbe capito che eravamo quartz locked (termine tecnico che indica il raggiungimento della perfetta sintonia tra due ricetrasmittenti con l’utilizzo delle vibrazioni di un quarzo) – sintonia totale-

Lei va ad aprire la borsetta nera che stringeva tra le mani e nel cercare il portafoglio estrae una retina di tulle nero che a fatica vi era stipata e che di colpo si espande sulla cassa come fosse una nuvola di polvere di grafite. Una volta raggiunto il portafoglio, che giaceva sul fondo, non fa in tempo a tirare fuori il denaro per pagare i gelati che viene investita da una mia precisa domanda in un finto perfetto inglese: “A che ora avete l’udienza con il Papa?”  Tra quaranta minuti, ma con questo caldo non intendo indossare questa zanzariera che sulla soglia degli appartamenti pontifici, rispose immediatamente senza battere ciglio.

La frase di lei conteneva la  risposta alla mia domanda e nel contempo mi dava un’altra informazione non esplicitamente richiesta: “bada, so che hai dedotto che stiamo andando dal Papa perché hai visto il velo”.

A questo punto, tutti coloro che di voi hanno avuto la fortuna di passare per la gelateria di Aldo, penso incomincino a intuire qualche cosa sul legame che unisce i tre personaggi sopra descritti e quel piccolo cartoncino incorniciato che campeggia sopra il bancone frigorifero dove, sotto uno stemma con due chiavi incrociate appare la frase: “Caro Aldo grazie per l’ottimo gelato K. W.”.

 

La seconda domanda che le feci fu chi diavolo fossero e per quale motivo avevano la fortuna di avere un udienza dal Papa (avevo già dimostrato tutta la mia intelligenza con la prima domanda quindi potevo permettermi il lusso di fare domande finalmente vere anche se banali) ed ecco le risposte:

K era un amico di famiglia; durante la seconda guerra mondiale suo nonno, giovane sottotenente medico della Wermacht, aveva conosciuto K. durante l’invasione della Polonia e gli aveva salvato la vita somministrandogli  le medicine necessarie per vincere l’infezione da cui era stato colpito, tradizione che si rinnova anche ai giorni nostri: la Bayer, di cui suo padre  è amministratore delegato, “fornisce” i farmaci speciali con i quali il Papa è tenuto in vita ed è messo, volta per volta, nelle condizioni di svolgere le attività pastorali che il mondo si aspetta ed esige da lui (detta in altri termini se il Papa, dopo una liturgia a S.Pietro, dovesse fare un test antidoping non lo passerebbe).

Il signore allampanato prima descritto si chiama Helmut Dopermeier ed è il migliore chimico-farmaceutico della Bayer e quindi della Germania e quindi del mondo occidentale, unico responsabile della produzione e sintesi di tutte le “sostanze” somministrate al Papa.

La storia di Helmut ricorda molto da vicino quella di San Paolo fulminato sulla via di Damasco: prima di lavorare alla Bayer era stato il più famoso chimico produttore di estasi di tutti i paesi bassi (il suo soprannome era “Dope” rmeier) finchè un giorno, non si sa per quale ragione, decise di cambiare vita. Del suo passato ha conservato il vezzo di marchiare le pasticche da lui prodotte con le sue iniziali (quelle destinate al Papa hanno quindi da un lato il simbolo papale dall’altro le sue iniziali).

 

Una volta compresa la confidenza che quei tre strani personaggi avevano con il Papa mi venne in mente di chiedere loro (onestamente non so perché) un favore: portare al Papa in dono due vaschette del gelato di Aldo (crema e pistacchio, miele e nocciola). Detto fatto, ed ecco così spiegato il perché del bigliettino papale incorniciato (a proposito del bigliettino vi devo svelare un segreto, quello incorniciato è solo una copia, l’originale è devotamente custodito a Gombito vicino Cremona dalla madre di Aldo che non potete immaginare  quanto sia felice e fiera del fatto che suo figlio sia “il gelataio del Papa”).

 

Berlino da L

Lei è L.

E’ nata 25 anni fa ad Amburgo.

E’ figlia di Manfred von Riben Amministratore Delegato della Bayer e di Sybille Lauer professoressa di arte orientale presso l’università di Amburgo……….

ma anziché continuare a raccontarvi di L seguendo un metodo cronologico e/o noiosamente logico vorrei descrivervi la prima volta che sono andato a trovarla a Berlino, città dove attualmente vive.

 

Arrivo all’aeroporto di Tegel alle 20 e 00; il viaggio era letteralmente volato a causa dello stato di tranquillità anfetaminica che mi derivava dal fatto che sapevo che tutto quello  che avrei vissuto di lì a poco, oltre a essere meglio di ciò che la mia fervida fantasia poteva immaginare, aveva una caratteristica che i miei sogni, nonostante tutti i miei sforzi, non avevano mai potuto avere: la non virtualità.

Scendo dall’aereo attraverso il tunnel retrattile che collega come un tentacolo l’aeromobile all’aeroporto, imbocco, seguendo il flusso, il corridoio che in base alle indicazioni conduce all’uscita quando mi sento toccato sulla spalla destra e contemporaneamente chiamato con un “entschuldigung Sie bitte”, mi volto e, nonostante indossasse il cappotto e la bustina di “ordinanza” delle hostess della Lufthansa, riconosco  L più velocemente di quanto i sensori degli airbag possano percepire l’impatto imminente (L come tutte le ragazze aristoriccoborghesi figlie di genitori aventi principi socialdemocratici solidi quanto i loro portafogli azionari, per un certo periodo della sua vita ha lavorato per la Lufthansa nelle tratte internazionali).

Quando rivedo L dopo tanto tempo la cosa che mi viene veramente istintiva non è tanto di baciarla e/o abbracciarla, ma piuttosto di allontanarmi da lei per poterla vedere figura intera (devo indietreggiare per allargare l’inquadratura).

In realtà il processo completo da me compiuto è : zoomata larga su immagine ideale di L (proveniente dal pensiero) – assolvenza di immagine reale di  L (proveniente dagli occhi) – zommata stretta su immagine reale.

 

Non facciamo in tempo a salutarci che L mi dice in modo brusco “siamo in ritardo, yalla!”

Da quel momento incomincia una frenetica e tranquilla corsa che ha come prima destinazione il castello di  Dessau.

Seguo L che nonostante indossi un paio di vezzose scarpe vintage anni 60 (appartenute alla zia Ela) e quindi poco adatte a sostenere brucianti accelerazioni, mantiene un ritmo tale da costringermi a imbracciare il mio trolley piuttosto che a trascinarmelo sulle sue comode ruote. Arriviamo al garage settore A 8 e lì la prima sorpresa: L mi era venuta a prendere con la Ali di gabbiano del padre[1]. La macchina è assolutamente originale, mai stata riverniciata o restaurata; il padre si è semplicemente limitato a fargli tutti i tagliandi dal 1955 (anno in cui è stata acquistata) ad oggi. A riprova di ciò l’opacità del grigio della vernice e le innumerevoli screpolature (o forse sarebbe meglio dire fascinose rughe) dei sedili in pelle.

Saliamo in macchina (cosa tanto emozionante quanto difficile visto la peculiarità delle ali-sportelli); L si toglie le scarpe gettandole sul retro dei sedili, indossa un paio di scarpette da surf (da peter pan) che giacevano vicino alla pedaliera, gira la chiavetta di accensione e parte.

Vedere guidare L  è uno spettacolo nello spettacolo, in particolare colpiscono le sue splendide gambe che si destreggiano, senza alcun impaccio o tentennamento, tra i pesanti pedali del freno e della frizione e le mani asciutte e nervose che dominano la corona bianco avorio del volante i cui riflessi (non so se volutamente o no) vengono richiamati dallo smalto madreperlaceo che  le ricopre le unghie.

La 300 divora l’autobahn, butto l’occhio sul contachilometri che con la sua luce ambrata, (tonalità che sembra dovuta ai 50 anni/luce percorsi per giungere fino a noi) illumina discretamente con un aurea di altri tempi l’abitacolo: la lancetta indica i 210 Km/h.

Fuori i ponti, le case, i lampioni le strade sembrano, a causa del freddo, ancora più immobili, mentre il calore generato dal motore tanto soffocante nei mesi estivi (i finestrini della 300 praticamente non si possono aprire) ci avvolge piacevolmente come di fronte ad una stube.

Ausgang, usciamo dall’autobahn e proseguiamo lungo una strada che si addentra in un bosco. Tutto è magico, la luce dei fari che squarcia l’oscurità perdendosi tra i fitti rami del bosco viene a cadenza irregolare improvvisamente frenata da coltri di nebbia che avvolgono la macchina facendoci  perdere il contatto sia con il tempo che con lo spazio circostante. Un falcetto di luna con il suo fare levantino e mediorientale contrasta con il paesaggio decisamente nibelungico del bosco.

Io ho ormai perso ogni legame con la realtà, prova di ciò è il sentito timore che qualche elfo o addirittura qualche ondina possano essere da noi investiti visto il ritmo futurista tenuto da L nella guida.

La strada costeggia un enorme muro che di colpo viene tagliato da un  cancello in ferro battuto, L non fa in tempo a rallentare che i due enormi battenti sono quasi del tutto spalancati e dal guardiano, che si proteggeva dal freddo ben serrato nella sua  guardiola, parte un segno di saluto.

“Das ist Tante Lare’s Haus” questa è la casa di zia Lare, mi dice L con un “semplicemente” non detto ma implicitamente contenuto nel tono della voce che volutamente contrappuntava, in maniera ironicamente snob, l’evidente stato di ammirazione e stupore che la vista della villa aveva suscitato in me.

La villa sembra essere stata disegnata dal Palladio tanto è armoniosa e compiuta, tutte le finestre sono illuminate e lasciano trasparire, ma forse è più giusto dire espongono/mostrano, tutta la ricchezza e l’opulenza degli interni; si ha come l’impressione che rilasci in questa notte così fredda e buia tutta la luce e il calore che aveva (o almeno sembrava) aver acquisito durante il giorno.

Vi è un armonia diffusa che neanche le decine di ammiraglie di servizio (principalmente Mercedes) parcheggiate sul piazzale antistante riescono a rompere (questo ad onor del vero anche grazie alla ingegneristica maniacalità con la quale erano state allineate in maniera simmetrica ed equidistante l’una dall’altra dai loro teutonici autisti).

L da brava  aristoviziatarivoluzionaria decide di rompere tale armonia parcheggiando l’ala di gabbiano di traverso, di fronte all’ingresso;  si rinfila le vezzose vintage ed entriamo,  subito accolti da una premurosa cameriera che ci prende i cappotti.

Una delle cose che unisce molto L a me  è una sorta di sincronia fisico e/o mentale che abbiamo: se vediamo un film che ci annoia la decisione di alzarci e andare via è al tempo stesso autonoma e contemporanea, lo stesso dicasi per il livello di attenzione rispetto ad una persona, un discorso, un oggetto,  è come se facessimo zapping rispetto al mondo con le stesse scelte e con gli stessi ritmi, come membri di una stessa pattuglia acrobatica: – ecco questo è quello che in questo momento non sta avvenendo. – Mentre L attraversa velocemente i saloni della villa per raggiungere, il più rapidamente possibile, la sala da pranzo, non frenata dalla novità e dalla bellezza dei luoghi  ai quali fortunatamente/sfortunatamente è avvezza, io  sono rallentato e frastornato essendo il numero di input dai quali sono investito troppo superiore a quelli che sono in grado di elaborare (sensazione per me assai inusuale).

Mi ritrovo trascinato da L nella Speisesaal (sala da pranzo). In mezzo vi è una lunga tavola avvolta da una tovaglia di lino bianca i  cui finissimi ricami che richiamano il disegno di quei giardini all’italiana tanto di moda nella Francia del 700, sono quasi del tutto coperti alla vista da porcellane cristalli e argenti la cui qualità ed eleganza ricordano quelle delle tavole degli Zar (e forse da lì provengono): la trasparenza dei bicchieri è tale che il colore rosso rubino dello chateau Lafitte risplende nonostante la stanza sia illuminata solo da candele (la zia a causa di una malattia agli occhi non sopporta la troppa illuminazione nelle stanze dove soggiorna), mentre le sottili decorazioni blu cina delle porcellane rendono ogni singolo piatto un capolavoro tale da mettere in soggezione chiunque (che come me non fosse un habitué) dovesse utilizzarli per fini diversi da quello contemplativo (ad es. mangiarci). Le posate, infine,  così leggere nel cesello sono in realtà di un pesante argento inglese ma così splendidamente bilanciate  da risultare leggerissime quando le si impugna per utilizzarle.

A capo tavola siede la zia Lare, sorella del nonno di L, personaggio per la cui descrizione sarebbe necessario un intero libro. Appena entriamo L si precipita verso di lei e la saluta con sincero trasporto scusandosi per il ritardo, io invece sono assolutamente intimidito, assalito da un senso di disagio: il pensiero di dover conoscere, salutare e addirittura conversare con le persone sedute a quel tavolo mi angoscia, in questo momento i pensieri non sono la causa del mio essere, ma al contrario la sua morte, l’ansia di dimostrare a quella qualificata platea la mia essenza la uccide: come comunicare loro il mio pensiero e le mie emozioni, per di più in maniera brillante e spigliata, avendo a disposizione al contrario di loro, maledetti poliglotti mitteleuropei, solo un modesto e mal pronunciato inglese?

Il livello di ansia sta raggiungendo pressioni incontenibili quando un “benvenuto caro Det “ pronunciato, in un perfetto prussoitaliano, da zia Lare mi raggiunge tanto inaspettato quanto liberatorio: “così tu saresti il famoso Det di cui L mi ha tanto parlato?”. Improvvisamente il disagio si trasforma  addirittura in felicità,  ho anche io una mia identità riconosciuta e garantita addirittura da chi in quella stanza ha il prestigio ed il carisma maggiore: Zia Lare.

Per favore, un attimo di silenzio, voglio presentarvi Det, è italiano, viene da Roma, frequenta L, cosa incredibile, da più di sei settimane…. mentre  parla io mi sento ormai quasi del tutto a mio agio ma proprio quando non temo più insidie avviene l’inaspettato: ok Det siediti di fronte a me e cominciamo  l’interrogatorio, dice zia Lare raggelandomi di nuovo il sangue nelle vene. Rivolgo istintivamente lo sguardo verso L, esigendo, con gli occhi, immediate quanto esaurienti spiegazioni, che giungono repentine con un metodo più partenopeo che asburgico: la rotazione dei palmi delle mani verso l’alto accompagnata da un movimento ascendente delle spalle – “non posso farci niente, questa è la regola……”.

 

Kafer race

Sono le 3 e 30 del mattino quindi il sabato notte si è trasformato in domenica mattina e dove si va la domenica mattina se si frequenta una giovane e ricca aristocratica prussiana?

Alle corse ovvio, stolti!!

Ma non a quelle di cavalli a Windsor alle quali sarebbe obbligato ad assistere chi avesse la fortuna di frequentare giovani rampolle della famiglia reale inglese, no alle Kafer race.

E qui la vostra “cultura automobilistica” che tante volte vi avrebbe tolto di impaccio di fronte ad  alcune mie dotte citazioni (d’altronde ogni botte dà il vino che ha: se uno conosce la letteratura francese cita Flaubert, se uno conosce solo di macchine cita Citroen) non vi sarebbe di aiuto: il fatto che kafer è il termine con il quale viene comunemente chiamato in Germania il fortunato modello della VW da noi battezzato maggiolino, vi indurrebbe erroneamente a pensare che siano corse di automobili. No, siete fuori strada:  corse di scarafaggi.  Sì scarafaggi, quegli insulsi animaletti che tanto terrore ingenerano in tutti noi quando fanno capolino dal lavello della cucina o dal sifone del bagno. Le famose corse di scarafaggi organizzate da Sasha.

Arriviamo nel quartiere di Prenzlauerberg, scendiamo una rampa di garage situato sotto uno di quei tipici palazzoni di stile sovietico della parte est e finalmente capisco per chi erano quei dieci Krapfen che L aveva comprato in un laboratorio situato a Rosen Strasse (A Roma si comprano i cornetti, a Berlino i Krapfen, chiamati Berliner: tutto il mondo è paese) erano per Victor  120 kg di guardiano ringhiante avvolto in cappotto di pelle di elefante che impedisce l’accesso al Garage a chiunque.

Quando Victor vede L avviene qualcosa di miracoloso paragonabile solo all’effetto prodotto da S.Francesco sui lupi.  Victor si avvicina, alza l’alasportello, prende la mano di L con una delicatezza e leggerezza non prevedibile e la bacia; da quel gesto traspariva in maniera inequivocabile tutto l’affetto, il rispetto e l’ammirazione che Victor nutriva per L (affetto, rispetto e ammirazione che sono una sorta di costante nei rapporti che L instaura con le persone). L si gira prende il pacchetto con i Krapfen e glielo porge accompagnando il gesto con un affettuoso jeb destro al naso di Victor.

 

Parcheggiamo la macchina, saliamo la prima rampa della scala interna e ci ritroviamo all’interno dell’ingresso del palazzo di fronte agli ascensori, nel caos più totale.

Descrivere che tipo di gente vi fosse è impresa assai ardua per una semplice ragione: vi erano praticamente tutti i tipi di persone, in una sorta di arca di Noè allargata (nel senso che il campione di ogni razza non era limitato alla coppia).

L’avvicinarsi dell’ascensore al piano era preannunciato non tanto dall’enorme display a led rossi sovrastante la pulsantiera ed inchiodato sull’indicazione di un enigmatico piano – 2, ma piuttosto dal crescendo del volume e delle frequenze basse legate all’avvicinarsi della cabina, crescendo che dava luogo, all’apertura delle porte, ad un esplosione di musica e vibrazioni che investiva, capottandolo con la forza della piena di un fiume amazzonico, chiunque vi si trovasse di fronte.

La situazione all’interno della cabina era ancora più sconvolgente, il cielo era infatti costituito da un enorme woofer (altoparlante che riproduce le frequenze basse) affiancato da due fori circolari che avevano lo scopo di far rientrare nella cabina le frequenze basse prodotte posteriormente dall’altoparlante ed amplificate dall’enorme cassa armonica costituita dal condotto dell’ascensore; all’avvicinarsi della cabina all’ultimo piano il volume della cassa acustica costituita dal condotto diminuiva  accentuando ulteriormente la pressione sonora all’interno dell’ascensore.

Era come stare all’interno della camera di scoppio di un motore a pistoni.

Dodicesimo piano vibrazioni!!! Dopo aver percorso un lungo corridoio sul quale si affacciavano una ventina di stanze abbandonate si arrivava ad un enorme stanza rettangolare, nella quale in uno dei lati lunghi vi era un lunghissimo bancone che divideva, a mo’ di barricata, chi fruiva da chi forniva l’alcol.

Il bancone era in cemento arrotato ed era percorso longitudinalmente da quattro scanalature parallele profonde tre dita. Le pareti erano coperte da cemento spatolato con impressi le caratteristiche striature dello zimmerit[2]. La musica proveniente dai quattro angoli giungeva nitida e potente in ogni punto della stanza facendo vibrare nolente o volente qualsiasi corpo (animato o non) che le si frapponesse. Tutto pulsava all’unisono mentre due videoproiettori accoppiati proiettavano nella parete di fondo immagini psichedeliche con un formato cinemascope.

A un lato del bancone vi era la cassa dove si potevano comprare i biglietti delle “consumazioni,” ogni biglietto era numerato lungo entrambi i lati corti.

La gente acquistava i biglietti, li strappava a metà e ne consegnava un pezzo al fornitore di alcol posto al di là del banco accompagnando l’indicazione del drink che intendeva bere con una delle prime 4 lettere dell’alfabeto greco, es : gin tonic alfa, negroni beta ecc.

La cosa strana era che solo raramente il numero delle consumazioni fornite corrispondeva al numero dei biglietti consegnati, vi erano infatti persone che a fronte di centinaia di biglietti ricevevano solo una misera coca e rum, abbastanza carica, ma pur sempre una semplice coca e rum.

Il mistero avrebbe per me trovato di lì a poco risposta.

 

3 e 59 di colpo la musica si interrompe sostituita da un giro di basso tanto profondo da far vibrare ancora di più (cosa che francamente ritenevo non potesse essere ulteriormente possibile) ogni cosa che non fosse solidamente infissa al pavimento, la fornitura di alcol viene interrotta, bicchieri, bottiglie e ogni altra cosa si trovasse sopra il banco si smaterializza; Sasha con un balzo sale sul bancone, versa lungo le scanalature un liquido lattiginoso che dei sottilissimi fasci di wood facevano risaltare nell’oscurità come fosse una sorta di lava lunare, giunto alla fine dal bancone si abbassa e sfregando un semplice svedese sulla superficie ruvida del cemento, dà fuoco alla lava: improvvisamente 4 lingue di fuoco si alzano e corrono raggiungendo velocemente, come fossero dei traccianti sparati nella notte, l’altro capo del bancone  scatenando un eccitazione in tutti gli astanti molto prossima all’orgasmo, una scatola di legno viene appoggiata sul lato destro del bancone e un cavo di acciaio viene teso al di sopra delle 4 scanalature tra due anelli fissati ai lati sui muri.

Sul cavo, su di una carrucola, viene agganciata una piccola camera digitale le cui immagini da quel momento in poi sostituirono quelle usualmente proiettate sulla parete di fondo. Dopo la sfiammata la gente si riavvicina al bancone.

Che tipo di persona fosse Sasha mi fu subito chiaro  nel momento in cui il suo sguardo, raggiunto da quello di L, venne da lei portato verso il mio e successivamente dietro al bancone per poi tornare, questa volta autonomamente, su di me dando luogo ad un segno di consenso: in quei pochi attimi la comunicazione era massima: lo sguardo di L aveva chiesto a Sasha qualcosa che a nessun altro sarebbe stata concessa, avendo la certezza della risposta affermativa ed essendo al tempo stesso assolutamente consapevole che questa non era affatto scontata o dovuta.

Sasha annuì, approvando contemporaneamente la richiesta di poter seguire la gara (eccezione assoluta) al di là del bancone ma anche (cosa non richiesta) la mia “amicizia” con L. Questo però solo dopo aver fatto tornare autonomamente il suo sguardo su di me e aver instaurato tra noi un rapporto indipendente che prescindeva dalla presentazione di L.

 

Sasha si avvicina alla scatola e con un colpo secco solleva l’apertura a ghigliottina, immediatamente  quattro scarafaggi incominciano la loro corsa ad una velocità fuori scala, innaturale, sinteticamente alimentata/cagionata dalle sostanze che i loro trainer gli hanno fatto assorbire, praticamente più che degli insetti erano delle pasticche di mdma con le zampe. Sia chi scommette e sia i bookmakers infatti valutano e danno le quote basandosi non sulle caratteristiche fisiche dello scarafaggio (quasi del tutto ininfluenti) ma sulla bravura e sulle qualità del chimico che ha “preparato” l’insetto: praticamente si scommette sul chimico.

L’origine di queste competizioni si deve proprio a esperimenti compiuti nei laboratori del Max Planke Istitut dove gli annoiati “scienziati” che studiavano gli effetti delle sostanze anfetaminiche cominciarono a far competere le loro cavie lungo gli asettici corridoi dei laboratori (tra tutti ovviamente eccelleva il da voi già conosciuto ”Dope”).

24 ore prima della gara gli scarafaggi vengono rinchiusi in delle piccole scatolette di un legno poroso tipo balsa  e sul cui pavimento vi è polvere di talco, ogni ora  le scatolette vengono bagnate con quantitativi via via crescenti di una soluzione di mdma pura mista a Ketamina che inducono l’animale a una sorta di schizzofrenia motoria che viene meccanicamente sedata sia dall’esiguità dello spazio sia dal fatto che il soffitto della scatoletta, sotto la spinta di una molla opportunamente calibrata, schiaccia lo scarafaggio sul talco impedendo alle zampe di muoversi e favorendo nel contempo anche l’assorbimento delle sostanze di cui il talco si è impregnato.

Non saprei quantificarvi il grado di sofferenza che un tale tipo di “trattamento” comporta, non vi sono infatti risultanze scientifiche a riguardo, dato che nessuno degli scienziati in questione  lo ha mai ritenuto un parametro utile da misurare, nè l’opinione pubblica (anche quella animalista) se ne è mai interessata.

Il mio giudizio al riguardo è confuso dalla conoscenza  che cose ben più allucinanti accadono ad es. a quella speciale categoria di cavie da laboratorio chiamate “sportivi”, costretti, ad es., a dormire con due aghi ficcati nel braccio al fine di allacciare il proprio sistema circolatorio ad opportuni frullatori che impediscano al sangue di smettere di scorrere avendo questo raggiunto, grazie al nandrolone, un grado di densità   prossimo a quello del budino al cioccolato.

 

A metà percorso lo scarafaggio della corsia alfa sopravanzava di un incollatura (si dice così anche per gli scarafaggi?) quello della corsia beta, mentre gli altri due avevano un ritardo tale da renderli praticamente fuori corsa. Tutti gli occhi erano puntati su quei due insetti colorati (il dorso di ognuno di essi era stato dipinto con dei colori fluorescenti rendendoli così più simili alla categoria dei pennarelli evidenziatori della Stabilo che a quella degli insetti alla quale, loro malgrado, appartenevano).

Era facile distinguere gli scommettitori dai semplici spettatori,  i primi al contrario dei secondi più che guardare spingevano con i propri occhi lo scarafaggio sul quale avevano riposto, oltre che la propria fiducia, un bel mucchio di deutsche mark cercando nel contempo di frenare, prosciugandone le energie, gli scarafaggi avversari (in questo gli scommettitori delle kafer race sono del tutto simili a quelli delle corse di cavalli o cani).

La lotta era serratissima la distanza che separava i due contendenti era ormai ridotta a pochi micron ma alla fine è proprio beta a prevalere,  di colpo la sala si accende illuminata a giorno da potenti riflettori da studio fotografico,  la luce è così abbagliante da rendere le figure e i volti degli astanti ancora più inintellegibili di quanto lo fossero prima con l’oscurità. La serata era conclusa, il locale chiudeva senza sbrodolature, niente ultimo drink, niente ultimo disco, niente bis, tutti si allontanavano velocemente, io mi ritrovai preso per mano da L come un bambino, di nuovo in macchina cullato dalla voce di un disco di Victor Lazlo.

 

Casa di L

Ci stavamo dirigendo finalmente a casa, ascensore, si apre la porta, esco, di nuovo l’incredibile; mi trovo sospeso sopra Berlino, su di una distesa di moquette beige morbidissima che ricopriva il pavimento di uno spazio circolare illuminato da una luce ambrata che sembrava essere stata filtrata da un bicchiere di cognac, e circondato da vetrate con infissi in teak che si aprivano su di una spettacolare vista a 360 gradi sulla città. La prima cosa che veniva istintivo fare era togliersi le scarpe, e girare in tondo in quell’enorme open space costruito sopra un ex serbatoio; quel posto non era bello, era di più, lo erano i bellissimi divani con telaio in titanio su cui erano appoggiati, con uno stile Le Corbuiser mod. Barcelona rivisitato, enormi cuscini squadrati di morbidissima pelle marrone, lo erano le bellissime piantane di opale che illuminavano non viste l’ambiente.

Comincio a girare intorno e mi imbatto nella sezione del disco volante che doveva essere la cucina; lo intuisco dal fatto che, forse per sbaglio, sopra una lastra di cristallo che si librava a mezz’altezza di fronte alle vetrate era rimasto appoggiato un bollitore di acciaio (che mi giocherei le palle era stato disegnato da Marianne Brandt) intorno al quale vi erano le tipiche macchie di calcare che si formano quando dell’acqua entra in contatto con una superficie incandescente  e ne deduco che quella lastra, che all’apparenza sembrava essere  un aeroporto per cocainomani, doveva in realtà essere il piano di cottura (il piano di cottura dell’astronave enterpreise di Star Trek,  ma pur sempre un piano di cottura!!).

Proseguo nel giro e mi imbatto in un’altra lastra o anzi meglio in un sandwich/wafer composto da una lastra di granito nero tra due lastre di cristallo nel quale da un lato era stato tagliata/scavata una vasca e dall’altra in corrispondenza di quello che in un lavello per comuni mortali vi è lo sgocciolatoio, era possibile intravedere, attraverso la trasparenza del cristallo, il labirinto di condotti scavati nel granito che portavano l’acqua a un cilindro d’acciaio che a rigor di logica doveva essere un  rubinetto. Sopra sospesa su due sottilissimi cavi di acciaio vi era, novella spada di damocle, una lastra di cristallo rettangolare  al cui interno erano annegati dei circuiti stampati che alimentavano dei faretti alogeni ( prodotta da Artemide mi sembra?).

Continuo e mi imbatto in un parallelepipedo di cristallo, il mio orgoglio riesce a trattenere il “was ist das”[3] che stava per partire spontaneo verso L, permettendo così alla mia intelligenza di pervenire autonomamente alla risposta corretta (n.d.r. il forno) e alla mia ironia di dire ad L, con aria di sufficienza, che mia madre l’estate scorsa aveva fatto istallare il modello successivo nella casa in campagna.

 

Il mattino seguente

E’ mattino, il mattino di un giorno a Berlino, sono disorientato, dove sono? La luce del giorno illumina la stanza, osservo lo spazio intorno a me, sono felice. Tutto è al tempo stesso così nuovo e così familiare, mi sento parte della stanza (ed in effetti lo sono visto che sono praticamente sdraiato per terra essendo il letto di L un semplice rettangolo di lattice appoggiato sul pavimento). Osservo i miei vestiti sparsi sulla moquette, osservo L abbracciata al cuscino ed il contrasto della sua pelle con il lenzuolo bianco, contrasto non tanto visivo ma tattile (la morbidezza della sua pelle è tale che anche il più morbido dei tessuti sembra ruvido e abrasivo), mi avvicino sento l’odore della sua pelle e del rimmel azzurro che seppur ormai stemperato le copre ancora le tempie. Sono ancora sotto il controllo delle sensazioni provenienti da tutte le mie interfacce umane  quando improvvisamente un post-it, che avevo appuntato nella mia mente, mi ricorda di fare una cosa che avevo preparato e desiderato da tempo: mi alzo, cerco la mia borsa da viaggio, trovo il cd che con molta cura avevo riposto tra le t-shirt e lo infilo nel lettore b&o che fa da spalliera al letto, traccia 3, schiaccio play: la voce di Nico (la cantante dei velvet underground n.d.r.) riempie  la stanza espandendosi così dolcemente da sembrare essere stata da sempre li come sospesa, sospesa come i vapori di incenso all’interno di una cattedrale gotica illuminata da un caldo fascio di luce proveniente dal rosone…..sunday morning…….in quel momento sia i miei desideri razionali sia quelli istintivi erano soddisfatti all’unisono, la felicità che avevo in me era tale  da farmi sentire non solo parte dell’universo ma anche in espansione con esso.

 

Luger Challenge

È un tranquillo martedì pomeriggio berlinese, abbiamo appena finito di mangiare e di sparecchiare (finire di mangiare e sparecchiare sono attività indissolubilmente connesse, sia per L, tedesca originale e quindi ordinata di default, che per me, dittatore mancato, che in quanto tale riversa i suoi impulsi dirigistico totalitari sugli oggetti che lo circondano ed è quindi più tedesco di un tedesca) che L, come presa da un’illuminazione, mi dice di seguirla  perché vuole farmi vedere qualcosa che a suo dire sicuramente  mi piacerà/interesserà.

Arriviamo in camera da letto davanti ad un bellissimo quadro astratto appeso alla parete e mentre io stavo per cominciare con i classici peana esaltanti la bellezza del quadro, spinto sia dalle reale qualità dell’opera sia dal pensiero che quello fosse ciò che con tanto trasporto L voleva entusiasticamente mostrarmi, improvvisamente….. colpo di scena!  L lo afferra, lo stacca della parete e, banalità delle banalità, appare lo sportello di una cassaforte (devo essere onesto, non mi sarei mai aspettato da un tipo inusuale come L o anzi meglio dai suoi brillanti genitori gli hanno comprato la casa o anzi meglio dal geniale architetto a cui i genitori di L hanno commissionato la ristrutturazione della casa, una così rovinosa caduta di tono, nascondere una cassaforte dietro ad un quadro!!!!). L si avvicina e dopo aver aperto uno sportelletto che copriva un tastierino numerico vi incomincia a digitare il codice segreto, io  spinto da un mio naturale moto di discrezione non faccio in tempo a girare la testa verso un’altra parte che L accortasi del fatto incomincia a recitare canticchiando: 123 fur D.D.R. e nel ripetere con un tono sempre più basso quella sorta di codice filastrocca si avvicina al mio orecchio bisbigliando e mi da un bacio pieno di tenerezza affettuosa per quel mio gesto di istintiva discrezione.

Ma bando ai sentimentalismi e torniamo alla cassaforte, mi ero scordato di dirvi che il quadro non era una miniatura 30 X 30 ma bensì un 120 X 120 (non chiedetemi di chi fosse perché non lo so, ma poteva trattarsi benissimo di un Jasper Johns come di un artista turco che espone in maniera itinerante le sue opere nelle strade di Berlino) e conseguentemente lo sportello della cassaforte era almeno 90 X 90. All’interno vi erano contenute tutte ordinatamente riposte nei diversi scaffali che suddividevano la cassaforte una serie di scatole le cui pelli e le cui cuciture, ancora più dei marchi che vi erano impressi, lasciavano presagire, senza ombra di dubbio, un contenuto eccezionale.

Tra le tante scatole quella che mi aveva colpito di più era una in cui, lo stile, il rivestimento consunto dal tempo e la piccola e discreta scritta bvlgari in oro zecchino ossidato e in parte saltato mostravano inequivocabilmente l’appartenenza del contenuto ad almeno tre generazioni fa.

Non faccio in tempo a chiedere informazioni a riguardo, che L richiama la mia attenzione su ciò che doveva essere l’obiettivo dell’esibizione: una scatola in legno con al centro, stampata a fuoco, un aquila imperiale tedesca con relativa svastica. L la prende richiude la cassaforte, torna in sala da pranzo, appoggia la scatola sopra il tavolo e dopo fatto ruotare i due gancetti che ne bloccavano il coperchio lo solleva mostrandomi orgogliosa il contenuto: Das ist die Luger di Nonno……, poi la impugna e dopo aver, con movimenti sicuri e controllati di chi è abituato a maneggiare un arma, estratto il caricatore e controllato, facendola scarrellare, che non vi fosse il colpo in canna me la porge.

Tenere in mano quella pistola suscitò in me un insieme di intense emozioni solo in misura minima affuscate/attenuate dal retropensiero della morte che quell’arma aveva “generato” (generare morte concetto contraddittorio quanto complesso) o forse, me ne vergogno a dirlo, addirittura accentuate da tale agghiacciante pensiero. Tutto di quella pistola era emozionante: la forma, la qualità dell’acciaio e la precisione delle lavorazioni evidenti anche all’occhio del più inesperto, il peso e il bilanciamento, insomma un capolavoro era la famosa Luger di ordinanza degli ufficiali tedeschi, il cui design e la cui precisione (concetto Bauhaus) la rendono oggetto di culto sia da parte di patiti del design sia dei patiti delle armi (oltrechè, purtroppo, dei nostalgici del nazismo).

Ad L quell’arma le fu regalata direttamente dal nonno a 18 anni dopo averla (sottoposta) ad un severissimo tirocinio che le aveva insegnato come e quando usarla e, cosa ancora più importante, come e quando non usarla (essendo L la sua unica nipote il nonno non ha potuto far altro che insegnare a lei quello che avrebbe voluto fare, forse più volentieri, con un discendente maschio, ma anche in questo caso necessità fa virtù).

L è in grado, almeno così mi ha detto, di colpire al poligono a 100 metri, con tutti i colpi del caricatore,  la sagoma centrando il centro o al massimo i due cerchi concentrici intorno ad esso.

Dopo avermi mostrato la sua Luger, L colse l’occasione per farle l’ordinaria manutenzione e pulizia (attività indispensabili nel caso di una Luger visto che l’unico difetto di tale tipo di arma è sempre stata l’eccessiva sensibilità alla sporcizia) a tal fine dopo aver preso nel ripostiglio un apposito kit costituito da scovolino, olio e un morbido panno, incominciò a smontarla ed a lubrificarla; mentre lei faceva tutto ciò io presi la macchina da cucire, contenuta anchessa nel ripostiglio e incominciai a cucire una sorta di gonna per L ispiratami dalla foto di un vestito di Paul Smith visto su un rivista allegata al corriere…..

 

L’illuminazione

Ore 2  del pomeriggio, eravamo sdraiati sul divano, molto più confortevole di quello che il suo stile minimalista germanico potesse fare immaginare, sul tavolino era ancora appoggiato il vassoio con il Brunch  organizzato da L.

Ho detto organizzato perché il verbo cucinare non ha mai avuto l’onore di far parte di una frase nella quale L fosse il soggetto,  anzi già che ci siamo approfondiamo questo aspetto  aprendo così una parentesi sulle imperfezioni, manchevolezze, i difetti di L (o credevate forse, stolti, che quelle indefinite sensazioni provocate da L in me potessero aver ottenebrato la mia lucida visione della realtà):

L non sa cucinare, non è nei suoi cromosomi.

-E’ in grado di mescolare lo yogurt con la giusta proporzione di quegli scarti della lavorazione del legno che vi vengono ormai allegati in qualsiasi confezione (il tutto senza uccidere neanche uno dei migliaia di fermenti lattici ancora vivi che riusciranno a rivedere di nuovo la luce solo un attimo prima di terminare la loro misera esistenza bruciati dall’acido di chissà quale esofago)

– sa scaldare perfettamente al microonde gli ottimi involtini primavera venduti alla Tesco di Linen Strasse,

– “realizza” anche piatti tipici della cucina tedesca, (è ancora vivido in me il ricordo del profumo sprigionato dall’apertura della confezione di plastica di wurstel che con tanto amore aveva fatto bollire insieme alla scatola di crauti  Wunderbar)-

ma ribadisco non è assolutamente in grado di preparare niente che presupponga la benchè minima preparazione.

A  riprova di ciò è quell’immangiabile  pastrocchio insipido di uova rapprese (piatto forte del suaccennato brunch) che avevo cercato, per non mortificarla, prima di mangiare e poi di nascondere sotto  bucce di arancio e alcune foglie di lattuga e che in quel sonnacchioso pomeriggio domenicale  mi occhieggiavano dal vassoio mentre, come dicevo, ero piacevolmente sdraiato sul breuerdivano con L al mio fianco.

Di un tratto uno strano pensiero mi passa per la mente, la vicinanza di L era riuscita finalmente a stabilizzarmi e a farmi capire che era finalmente arrivato il momento di agire.

Di agire per fare cosa? Ma di cosa sta parlando?

 

Di dare avvio al processo di reazione a catena che da lungo tempo avevo teorizzato/sognato/desiderato e per il quale avevo condotto per anni una ricerca spasmodica a volte schizofrenica degli ingredienti basici.

 

Da tanto tempo mi comportavo come un cuoco che, attraversando il mondo nel tempo e nello spazio, aveva selezionato ingredienti e materie prime aventi sapori, profumi e consistenze delle più diverse e apparentemente inconciliabili. Un cuoco che mentre attraversava i banchi dei mercati sceglieva con sicurezza e senza tentennamenti gli ingredienti nella certezza che ciascuno di essi era necessario, se non indispensabile, ma non sapendo ancora a che cosa.

 

Da tanto tempo conoscevo quale erano i miei compiti: 1) selezionare gli elementi iniziale 2) dare avvio, come un catalizzatore, alla reazione, esserne il DETonatore, ma non sapevo quando avrei dovuto dare l’innesco, ero terrorizzato avevo la Kambusa sufficientemente piena e sapevo che il cercare altri ingredienti sarebbe stato solo un alibi per nascondere a me stesso la paura di fallire.

 

Da tanto tempo mi domandavo come era possibile (ed a che scopo) mescolare uno straricco commerciante d’arte ticinese, conosciuto ad un raduno di auto d’epoca in Spagna, che durante la cena aveva allietato i commensali raccontando, con istrionica abilità, le difficoltà avute per riappropriarsi dei bulloni della propria Maserati ingoiati dagli struzzi che liberamente circolavano nella sua immensa Fazenda argentina, con una giornalista televisiva che puntualmente ogni sera rappresentava, in una sorta di contrappasso dantesco, quella certezza e quelle sicurezze che lei tanto desiderava e non riusciva ad avere.

Improvvisamente lì a Berlino, sdraiato su quel divano con al mio fianco L, tutto dentro di me era diventato chiaro, nitido, necessario. Il catalizzatore (io) era stato catalizzato da L, sapevo quale sarebbe stata la cucina, la “base” per il gruppo (palazzo Altieri), quali le portate (televisione, telecomunicazioni, architettura, finanza, diritto, musica, teatro, cibo, moda, auto, arte, quali gli ingredienti (le persone che avevo selezionato).

So benissimo cosa state pensando perché è esattamente quello che penserei io se incontrassi qualcuno che mi esponesse un programma simile: che  tenerezza fa questo infantile Don Chisciotte i cui ideali e obiettivi coincidono con quelli di una qualsiasi direttrice di inserto femminile o di uno dei tanti novelli Andy Wharol che, non riuscendo a farsi una famiglia, aspira ad una Factory, copione già visto, fatica sprecata anche solo ascoltarlo, ma non è così e ve ne convincerò:

 

Per capire il principio su cui si basa tutta questa storia dobbiamo partire dall’arcobaleno, dai colori dell’iride, dallo spettro luminoso: secondo voi è più probabile che possa venir fuori luce bianca dal rimescolamento di sette colori che apparentemente non c’entrano niente l’uno con l’altro o che persone come quelle fin descritte possano, una volta messe in contatto tra loro, far venir fuori qualcosa di buono?????

Secondo me la seconda e da questa convinzione sono partito.

Quanto ho detto non è però ancora sufficiente a spiegare in maniera chiara ed inequivocabile la ragione che mi spingeva a costruire una cittadella fortificata  una sorta di arca di noè che contenesse solo i migliori in ciascun campo dell’agire umano.

Prima però di chiarire questo punto devo spiegarvi cosa intendo per migliori nonché i criteri da me adottati per selezionarli.

Generalmente in questa società, in ogni settore, per essere considerato il migliore bisogna disporre di due capacità: una nel campo in cui si opera (es saper ballare per un danzatore, saper suonare per un musicista, ecc.) e una in quello della relazione umana, quindi se uno è un bravo designer (diamogli un voto 7) ma è assolutamente incapace di relazionarsi con il mondo (voto 1) sarà considerato, dai più, mediocre (voto 7+1=8/2=4).

Per me che uno non abbia grandi capacità di relazione non è un fatto inaccettabile, in quanto con le mie doti posso compensare questa sua carenza,  mentre è assolutamente necessario che sia il migliore nel suo campo e che io sia interessato a relazionarmi con lui. Sarò poi io che con le mie doti compenserò le sue lacune e viceversa, al fine di farlo relazionare non solo con me ma anche e soprattutto con gli altri.

Il mio compito e di selezionare i migliori e di fare in modo che possano comunicare tra di loro, io sono (again si lo so è una mia fissa) il loro comune denominatore, il loro punto di contatto, il garante della compatibilità.

Ok, adesso posso finalmente rendervi nota la ragione/l’obiettivo: modificare il mondo, non intendo l’intero universo, ma almeno il mondo che mi circonda

Era il momento di dire basta alla finzione che ci circonda,  era il momento di gridare al mondo che il re è nudo, ma per farlo non volevo e non potevo essere solo, dovevo essere circondato dai miei amici che per poterlo essere e poter aver il diritto di gridare a squarciagola insieme a me, era indispensabile fossero  vestiti con abiti  fatti con i tessuti e i broccati più raffinati e costosi che si possano trovare nel globo terrestre e cuciti e tagliati in maniera perfetta ed inappuntabile.

Penso infatti che il diritto alla critica lo si acquista solo dimostrando con i fatti la propria competenza nel campo dove si intende fare le proprie osservazioni;

solo chi ha assaggiato l’uva ha il diritto di giudicarla,  solo chi si è bucato le dita per cucire un paio di scarpe può giudicarne la fattura.

La competenza e la credibilità o le  si conquista  o se si hanno di default le si merita utilizzandole.

Bisognava sputtanare fintiartisti-galleristi–manager-esteti-avvocati-architetti-

Cessare di alimentare sia direttamente che indirettamente la finzione anche  a scapito dell’interesse personale di breve periodo.

Conquistare la verità palmo a palmo.

Combattere.

 

La presa della Bastiglia/pal. Altieri

Ore 9, sono passati 6 mesi da quella mattina a Berlino quando il catalizzatore (Io) era stato finalmente catalizzato (da L) e da quel giorno gli eventi si sono susseguiti ad una velocità esponenziale.

Mi trovo nella “sala rossa” e osservo la punta della Montblanc del presidente dell’ABI imprimere l’ultima firma sul contratto. Mi vedo, vedo Clad, vedo Sly entrambi avvolti nelle loro impeccabili flanelle grigie, osservo i puttini e gli animali mitologici che ornano le pareti della sala, vedo la luce che inonda la stanza (attraverso quella finestra che dal mio terrazzo sembrava così impenetrabile) tutto è armonioso anche il venefico odore prodotto da un camion che stava facendo manovra nel cortile.

Assaporo il momento e avvolto da una piacevole sensazione di leggerezza mi sento fluttuare nel mondo come fossi delicatamente sostenuto da eterei vapori di oppio e morfine che, dilatando la mia percezione del tempo e dello spazio, mi conducono in una indefinibile condizione di atemporalità. Improvvisamente però una scarica adrenalinica mi colpisce. Sono attraversato da un altro tipo di piacere, intenso, esplosivo, incontenibile, proveniente- al contrario del precedente- direttamente dal futuro e che mi proietta inesorabilmente verso di esso.

Ho come la sensazione che il mio arco visivo si muova con un accelerazione esponenziale formando intorno a me una sorta di tunnel, una  pellicola tridimensionale che scorrendomi intorno mi anticipa intense parti del futuro.

Quel contratto sanciva l’acquisto da parte nostra di tutti i locali di proprietà dell’ABI all’interno del palazzo e prevedeva il loro integrale sgombero entro un mese dalla sottoscrizione. In quel mese tutto doveva essere predisposto per l’arrivo del Gruppo/Tribù, in particolare si dovevano assegnare e dividere gli spazi alle diverse macro aree di attività. Ogni area doveva disporre degli spazi necessari allo svolgimento della propria azione, dovevano poi essere predisposti gli spazi per tutti quei servizi che potevano essere centralizzati.

 

Ma dove avranno trovato i soldi per fare tutto ciò vi domanderete: semplice affittando o meglio concedendo l’uso del tetto del mio appartamento.

“Questa volta hai esagerato, questo è troppo”   è la frase che starete pronunciando in questo momento sbottando: si sa che le compagnie telefoniche pagano bene per poter istallare le proprie antenne,  bene ma non abbastanza per finanziare tutto ciò. Hey fermi, chi ha parlato di antenne o compagnie telefoniche; io il tetto l’ho affittato alla NATO per istallarci una batteria antiaerea e vi assicuro, che per questo tipo di locazione pagano bene, molto bene.

Adesso quindi anche voi siete edotti sul fatto che Palazzo Altieri e un L.C.D. (last chance of defence)  (dopo l’11 settembre in tutte le principali città del mondo sono stati dislocati segretamente questi L.C.D. con il compito di abbattere in zona cesarini tutto ciò che, passato tra le maglie della difesa aerea tradizionale, stia per colpire edifici simbolici).

Noi difendiamo S.Pietro (la nostra sigla è LCD1 ita SpdomeP) con una batteria da sei missili terra aria produzione alenia/oto su progetto di Diod (altro menbro della tribù).

Compito di questi missili non è solo quello di abbattere ma di polverizzare l’aeromobile in pezzi così piccoli da non provocare danni con la loro successiva caduta. Dei sei missili quattro sono a guida termica (si dirigono verso fonti di calore), destinati ai motori, due a guida radar (si dirigono verso fonti di emissioni elettromagnetiche), destinati al muso, (dove generalmente c’è il radar) e alla coda (dove c’è un emettitore radio) ……visto che siamo in vena di confidenze in campo militare, della batteria antiaerea ho già parlato troppo,  vi posso anche accennare ad un’altra attività, fonte di reddito, svolta a palazzo per conto della NATO: la scrittura di sceneggiature. Sceneggiature, sì sceneggiature, o crederete, forse, che l’aereo finito sul pirellone fosse veramente pilotato da un industriale svizzero che sull’orlo del fallimento si era voluto suicidare -u know what i mean-

 

Occupazione e logistica

Ore 9.00, un mese dopo, il palazzo è stato sgombrato dall’ABI come concordato, il primo  ad entrare è Eddy e i suoi ragazzi.

Chi sia Eddy è presto detto: di giorno è un ingegnere elettronico (anzi direi l’ing. elettronico) di Telecom Italia Mobile (l’intera rete nazionale è stata progettata da lui) di sera si esibisce in locali transgender con il nome di arte di Eddy Lamarr (il perché abbia scelto questo nome d’arte dovete scoprirlo voi e inviare la risposta a questo sito www….)

La sua logica e il suo metodo non hanno eguali essendo, per di più, associati ad una vera, autentica, libertà di pensiero, dai più, gli stolti, definita banalmente follia.

Nel giro di 24 ore il palazzo è interamente cablato con tecnica wireless ridondata dalla precedente rete lasciata dall’ABI; in ogni stanza del palazzo è possibile accedere alla Lan interna strutturata per avere una capacità tale da consentire la trasmissione di segnali audio e video con standard broadcasting.

In pratica è come se il palazzo fosse stato dotato di capillare sistema nervoso in grado di trasportare tutti i tipi di dati che gli abitanti possono voler trasmettere o ricevere

Il contatto con il mondo esterno e invece garantito da:

due linee ad alta capacità (una telecom , l’altra e-biscom )

una parabola trasmissiva per up/down link satellitare

una parabola televisiva

un antenna tv

un antenna per cb

Ok ho descritto il sistema di trasporto delle idee[4] adesso passo a descrivere i luoghi dove le idee prendono forma i cosidetti Laboratori, che sono in ordine sparso: Lab Cucina ristorante; Lab Law; Lab Video; Deposito pigne; Lab Audio; Lab Electronica; Lab Meccanica; Lab Grafica e Design; Lab Finanz. Cominciando con il primo della lista.

 

Lab Cucina

Su dove posizionare la cucina non ho avuto alcun dubbio, esattamente nel luogo dove era posizionata nel 1700, ma prima di descriverla penso sia il caso di presentare chi la gestirà Zinc

 

Io Zinc l’ho conosciuto 3 anni fa Milano nel ristorante di Kaj dove lavorava come cuoco.

La prima cosa che mi aveva colpito di lui non era tanto il fatto che fosse giapponese (cosa abbastanza normale per uno che fa il cuoco in un sushi bar) quanto che comunicava con Kaj parlando un perfetto portoghese.

Zinc è l’ennesima testimonianza di uno dei principi del gruppo: solo chi è padrone della materia  può permettersi di raggiungerne l’essenza ed eliminare il superfluo.  Chi come Zinc è in grado di preparare un minimalistico e Bauhaus sushi è anche giocoforza in grado di preparare il più barocco dei profiterol e viceversa.

La sintesi in tutti i campi è indicatore di genialità ed è tale solo se deriva dalla volontà e non dall’indigenza.

Devo confessarvi che quando prima vi ho detto che la prima cosa che mi aveva colpito di Zinc era il fatto che parlava un perfetto portoghese ho mentito, questo non tanto perché egli non conosca il portoghese, (lo conosce e bene come l’italiano e l’inglese) quanto perché Zinc generalmente non parla, preferendo esprimere la sua volontà con limitati e quasi impercettibili segnali di diniego o accettazione fatti con la testa.

In questo senso è un esperienza unica andare a comprare il pesce insieme a lui nel più grande mercato del pesce d’Italia quello di Milano. Lui si aggira tra gli stand, dove sono esposti i diversi pesci, come avvolto da una sfera di silenzio e tranquillità che lo isola dalle urla e dai movimenti frenetici e scomposti del mercato. Quando vede quello di cui ha bisogno si limita a indicarlo con la mano accompagnando il movimento con un gesto di assenso del capo. Da quel momento quel pesce cesserà di essere sul mercato e sarà consegnata entro poche ore nella cella frigorifera della sua cucina; non c’è necessità di parole firme o scambio di denaro contante, tutti lo conoscono e tutti, soprattutto, sanno che lui, con i suoi 100 kg  di pesce acquistati al giorno, è il maggior acquirente finale di pesce pregiato di tutto il nord Italia (voglio rivelarvi un particolare divertente, al mercato hanno soprannominato Zinc con l’appellativo di Zorro questo perché molti dei venditori sono soliti segnare le cassette di pesce scelte da lui con una Z, la zeta di Zorro / Zinc).

 

Ma torniamo alla cucina, la prima cosa che vi è stata installata è stata una cassaforte. Una cassaforte in cucina? E per quale scopo vi domanderete legittimamente, per contenere i coltelli di Zinc. E anche sui coltelli di Zinc temo sia necessaria una divagazione.

Zinc oltre a essere un maestro dell’arte della cucina è anche il custode dell’antica arte giapponese della forgiatura dei metalli.

Tutti i coltelli che lui utilizza sono stati da lui costruiti con la tecnica della laminatura. Per spiegarvi in cosa consista tale tecnica ricorrerò alla esatte parole dettami da Zinc per farmela conoscere (parole che oltre a confermarvi le sue doti di sintesi vi riveleranno anche la sua profonda e nascosta dote di autoironia): “fare un coltello è come fare un piatto di lasagne” (la cosa bella è che proprio così, per costruire un coltello con l’antica tecnica giapponese, bisogna sovrapporre decine di sottilissime lamine di acciaio l’una all’altra e scaldare il tutto)

La tecnica utilizzata per realizzare la cucina è assolutamente analoga a quella che si utilizza per le piscine: piastrelle bianche sul pavimento nonchè sui muri fino a due metri di altezza tutto ciò allo scopo di permettere a fine giornata di pulire tutto con una idropulitrice ad acqua calda (la stessa che si utilizza per lavare le macchine) questa è anche la ragione per la quale i piani cottura e i piani di appoggio anziché essere  appoggiato a terra sono ancorati alle mura.

La cucina è disposta su una stanza rettangolare lunga 25 metri e larga 10, divisa in tre sezioni: Kambusa, area cottura, area consegne e lavaggiopiatti. Esattamente in corrispondenza della cucina, ma al piano superiore vi è il ristorante/cocktail bar il cui nome è già stato scelto: Alt .

 

Il Ristorante & Clot bar

Caratteristica del ristorante ALT è di non avere caratteristiche, ma non nel senso di essere privo di personalità quanto piuttosto di averne troppe: tante quante sono quelle che popolano il palazzo.

Quando uno prenoterà all’ALT non solo non sa che tipo di cibo ci sarà ma neanche che tipo di arredamento, che tipo di illuminazione, che tipo di atmosfera. Le uniche certezze sono che troverà And e/o Kaj ad accoglierlo, Zinc a cucinare (tranne quando non viene estromesso da uno dei creativi del palazzo)  Clotilde detta Clot a preparare i cocktails.

 

L’Alt infatti non è un ristorante, luogo cioè dove dietro compenso in denaro viene venduto (somministrato) del cibo, l’ALT è uno show room dei frutti della creatività del palazzo, dove tutto è in vendita e, a seconda delle esigenze e delle possibilità economiche che si hanno, vi si può comprare da un semplice rotolino di sushi all’intero arredamento.

Tutto l’arredamento interno è il frutto del lavoro dei diversi laboratori del palazzo, che hanno deciso bontà loro che per questo primo mese il tema a cui ispirare l’estetica del locale sia il dilemma  black & white vs color.

Spero che le parole black & white non abbiano generato, neanche per un istante, nella vostra mente il pensiero che tutto il locale possa essere stato arredato con oggetti rigorosamente bianchi o neri rifacendosi allo strabusato stile optical anni 70. Se avete avuto questo pensiero negatelo perché lo considereri altamente offensivo.

Il locale è stato per 2/3 colorato utilizzando quella infinita gamma di tonalità di grigio comprese tra il bianco e il nero come se fosse visto attraverso una fotocamera caricata con una pellicola b&W, e per 1/3 è stato lasciato innaturalmente al naturale accentuando la tonalità e la brillantezza dei colori in modo da aumentare ulteriormente il contrasto tra le due diverse parti. Su quale sia il punto focale dal quale si espande l’esplosione del colore sulle zone in B&W non ci sono dubbi: il teatro/bar di Clot.

 

Clot

Clot è come uno di quei contachilometri che dopo aver totalizzato migliaia di miglia di colpo si è azzerato; adesso beve, estrema come al solito, solo acqua o rosolio in una sorta di contrappasso dantesco prepara cocktails all’ALT.

Clot è collocata al centro di un piccolo anfiteatro dove, al posto degli spettatori, sono  allineati tutti i tipi di spiriti del mondo, dal maraschino (rigorosamente marca Luxardo) all’essenza di papaya fermentata delle isole vergini,  tutti da lei personalmente testati nella sua precedete vita di border etilista.

Clot è conosciuta per il suo famoso cocktail: il one second & half.

Per preparare il one second & half sono necessari 20 ml di vodka 2 cubetti di ghiaccio

Tutto qui direte voi….. non direi anzi, tuttaltro: preparare il one second & half  è difficilissimo, berlo ancora di più.

Bere il one second & half è quasi un arte, bisogna cominciare lentamente, accelerare repentinamente ed è indispensabile, sottolineo indispensabile, finirlo entro il secondo e mezzo (da qui il nome).

Il one second & half sa di tutto meno che di vodka, la sua caratteristica è di essere un cocktail a sapore variabile e crescente: all’inizio è stucchevolmente dolce con una punta amarognola e secca che si espande velocemente sovrastando immediatamente la dolcezza iniziale con un sapore secco e “speziato” considerato, da chi ha avuto la fortuna di assaggiarlo, ineguagliabile.

Se si termina il cocktail entro il secondo e mezzo vi rimarrà in bocca una sorta di piacevole eco delle sensazioni appena provate, esattamente come il rumore di fondo che è rimasto dopo il big bang;

se lo si termina dopo, il sapore amaro acido che vi sentirete sarà tanto disgustoso da impedirvi solo di pensare di riprovare a berlo (in realtà il one second & half è la versione edulcorata di un cocktail fortunatamente sconosciuto a i più denominato .godi o muori enjoy or die dove il sapore disgustoso in caso di “lentezza” nel berlo è sostituito dalla morte).

Il trucco e la difficoltà nel prepararlo è tutto nel ghiaccio fatto di acqua mescolata a un essenza conosciuta solo da Clot: ogni cubetto (che poi è in realtà sferico) è composto da 4 strati sottilissimi, dal più esterno nel quale il grado di diluizione di tale essenza è più elevato, fino al nucleo centrale costituito da essenza pura (visivamente i cubetti  sono bellissimi sembrano dei pianeti concentrici incastonati uno nell’altro come tante matrioske planetarie.

Ogni strato a contatto con la vodka mantenuta rigorosamente a –3 impiega all’incirca mezzo secondo per sciogliersi  dal momento dell’immersione (i cubetti/sferette contenendo nel nucleo centrale anche pallini da caccia, vanno a fondo immediatamente).

 

Lab Law

La sezione Law è stata dislocata nella zona del palazzo chiamata del “corridoio” a causa di un lungo corridoio sul quale si affacciano una decina di stanze per ogni lato, zona ideale per realizzare quello che avevo in mente: una sorta di istituto degli istituti di diritto, l’essenza delle facoltà di giurisprudenza.

Nelle stanze sarebbero stati dislocati quelli che a mio avviso sono i migliori luminari di ciascuna branca del diritto. I criteri da me utilizzati per selezionarli sono al tempo stesso semplici ed ardui da soddisfare: solo i migliori nel loro campo, solo i liberi di mente od almeno potenzialmente pronti per essere liberati.

Il primo che ho arruolato (Sly infatti non è mai stato arruolato in quanto era già) è stato il prof Itri., ed è stato facilissimo, mi sono presentato dicendogli:

 

Professore, a quanto mi riferisce il suo discepolo Sly, lei, apparentemente, sembra disporre di due qualità che quasi mai possono coesistere, in quanto generalmente l’una elide l’altra: la sapienza dei sapienti e il prestigio presso gli stolti.

La verità è però un’altra, lei possiede energie e capacità così savrabbondanti e superiori alla media da averle permesso, fino ad ora, il lusso di poter aprire contemporaneamente, come un  novello Napoleone,  due fronti opposti – la battaglia per conoscere e quella per essere conosciuto, l’essere e l’apparire-

Sono venuto per avvisarla che è giunto il momento di decidere, perché nonostante le sue capacità, le due strade non possono essere percorse contemporaneamente. Lei appare, ai miei occhi, come il marchio di una famosa marca di jeans, dove, a riprova della qualità del prodotto questi vengono tirati dai lati opposti da dei cavalli come fossero sottoposti ad una pena comminata dal tribunale della santa inquisizione.

Lei, oggi, onore al merito, ha raggiunto la massima estensione possibile nelle due opposte direzioni ma sento nella sua forte fibra i primi scricchioli e vedo in lei le cicatrici di battaglie perse ma borghesemente nascoste a se stesso ed agli altri, perciò prima che sia troppo tardi la invito a scegliere: join the crew.

Quello che le posso garantire, se deciderà di unirsi a noi, sono almeno due cose:

1) che le conoscenze di ogni membro del gruppo saranno con lei consapevolmente e non consapevolmente condivise allo stesso modo in cui lei, sono certo, condividerà le sue

2) che il ruolo che le verrà attribuito dipenderà da quello che  esternerà e non solo da quello che ha già esternato, cosicchè se si venisse a sapere che come prepara lei i bucatini alla matriciana non li prepara nessuno, sarà lei il primo ad essere consultato qualora si dovesse cucinarli in una cena a palazzo.

Il giorno stesso gli mostrai la sua stanza e le dotazioni di cui era fornita.

 

Le stanze dei giuristi, come vi ho già accennato, si affacciano lungo entrambi i lati di un corridoio del lato est del palazzo, sono tutte uguali e dispongono  di una dotazione standard da me progettata per soddisfare al meglio (spero) tutte le esigenze di un azzeccagarbugli.

Hanno una scrivania in legno dove campeggiano tre schermi piatti lcd, uno centrale per scrivere e due laterali per consultare tutta la documentazione contenuta nell’archivio centrale, (che essendo per l’appunto centrale comprende non solo documentazione giuridica, ma tutto ciò che tutti “gli abitanti del palazzo” hanno ritenuto di condividere,  si va quindi dalle raccolte complete ed aggiornate delle leggi d’Italia, fornite dallo stesso prof. Itri alla rassegna completa di tutti i numeri di Playboy fornita da un anonimo creativo).

Davanti alla scrivania vi possono essere, a seconda della familiarità dell’utente con i pc, o una tastiera con mouse o una lavagna grafica con penna. Questa seconda opzione, che prevede anche la sostituzione degli schermi standard con dei modelli interattivi, è stata studiata per attenuare lo shock subito dai professori più anziani che pur essendo abituati a utilizzare solo penna e documentazione cartacea sono stati obbligati ad adattarsi alle nuove tecnologie.

È banale dire come, in brevissimo tempo, proprio questi anziani neofiti dell’informatica si sono trasformati nei più entusiasti paladini delle nuove tecnologie, entusiasmo che può avere solo chi viene a conoscenza della facilità della scorciatoia, dopo aver provato la lunghezza e la ripidità della strada principale.

 

Deposito pigne

Un deposito di che direte voi? Di pigne, pigne quelle che stanno sui pini, ma non pigne nostrane bensì pigne del Caucaso, siete curiosi ok vi spiego tutto e anche a costo di essere accusato di divagare lo farò dall’inizio e questo perché voglio presentarvi un altro personaggio fondamentale Vik:

giovedì 23 aprile sono appena tornato dalla mensa quando improvvisamente tre pensieri spuntano in sequenza 1) dopodomani è la festa della liberazione 2) cosa faccio questo week end con ponte, 3) mando una mail a Vik chiedendogli se posso andare a trovarla a Mosca.

Venerdi ore 11 sto uscendo dalla sede dell’ambasciata russa a Roma con in mano quel visto che non avevo mai dubitato di poter ottenere, nonostante che la incompleta documentazione di cui disponevo e la necessità di averlo in giornata avrebbero impedito, anche al più ottimista degli ottimisti, anche solo di pensare di poterlo richiedere.

Ero felice e non tanto perché sarei potuto partire ma soprattutto perché quel timbro sul passaporto era la prova che l’acqua stagnante e ferma di una certa Roma in cui ero immerso da mesi non era ancora riuscita ad uccidere i miei sensi e le mie capacità.

Quando ero entrato all’interno della villa che ospita l’ambasciata russa, avevo sentito che tutte le mie interfacce si erano repentinamente riattivate e che la mia cpu stava velocemente ed efficacemente elaborando i dati  che da esse provenivano; ero come un soldato dei corpi speciali paracadutato in un ambiente potenzialmente ostile con una precisa missione da compiere.

Ognuno dei miei quattro sensi era amplificato dal cervello che incrociando le sensazioni provenienti da ciascuno di essi e confrontandole con quelle che deteneva immagazzinate nella  memoria mi permetteva di sentire, odorare, vedere, percepire di più, sensazione che da quel momento non mi ha più abbandonato fino al mio rientro in Italia.

Ero colpito dal contrasto tra la decadenza e la bellezza della villa, nella quale si muovevano personaggi ed erano collocati elementi che potevano apparire stonati solo a chi non avesse compreso la natura della Russia e dei suoi abitanti.

Nella sala di aspetto gli enormi specchi ossidati dal tempo e i ridondanti e sbocconcellati stucchi contrastavano con i tavoli/banconi in formica bianca, modello scuola media inferiore o  istituto tecnico professionale, sopra i quali erano sparpagliati un campionario di moduli che pur avendo forma e contenuto diverso, erano tutti finalizzati  ad attivare la lenta e farraginosa macchina burocratica russa, i cui meccanismi potevano in realtà essere sbloccati solo da quel lubrificante universale chiamato denaro.

Credo che nel mondo non vi è niente di più granitico e al tempo stesso di più malleabile delle regole dell’amministrazione russa che si possono superare solo cercando di opporvi  la minor resistenza possibile, riducendo il proprio fronte d’impatto come fa un tuffatore con le acque o dribblandole come fa la spoletta con le trame dell’ordito, attraversandole, infilandovisi

Ciò che però ritengo meglio rappresenti una delle diverse essenze della Russia è la ricevuta che mi è stata data quando ho consegnato il mio passaporto affinchè gli fosse impresso il visto. Ricevuta che chiudeva quelle che solo riduttivamente potrebbero essere definite procedure per l’ottenimento del visto  e che in realtà sono dei distillati del mondo che ci si appresta a visitare, come una sorta di full immersion o di percorso prodromico/introduttivo.

Faccio passare il passaporto sotto lo spesso vetro che mi divide dalla funzionaria addetta, la quale, dopo aver trascritto a penna alcune cose su un piccolo modulo prestampato della grandezza di un pacchetto di sigarette, me lo passa, sempre da sotto al vetro, invitandomi a tornare poche ore dopo per ritirare il visto. Io prendo quel foglietto e mentre sto per ripiegarlo con un automatismo inconsapevole, la mia attenzione viene magneticamente attratta dalle parole che vi erano appena state scritte sopra; ma non tanto dal loro contenuto o significato bensì piuttosto dalla loro calligrafia (forma grafica). Calligrafia che non corrispondeva assolutamente a quella che ci si aspetta da una signora russa addetta allo sportello visti dell’ambasciata, il cui piccolo orologio d’oro indicava insieme alla carnagione chiara, alle mani grassoccie ed alla pettinatura proletariopiccoloborghese da  casalinga del don la sua non appartenenza all’immaginata inellighenzia russa che ci proviene dalla letteratura.

Quella calligrafia invece era la testimonianza della immensa qualità e democraticità del sistema scolastico sovietico, in quei caratteri si potevano vedere le ore passate a scrivere sui quaderni dalla copertina di cartoncino nero semilucido sotto lo sguardo vigile di insegnanti la cui preparazione, la cui fierezza e il cui senso del dovere (tanto irraggiungibili quanto incomprensibili per la nostra classe docente) erano reali e nutritivi quanto le patate che costantemente monopolizzavano i sovietici pasti quotidiani.

Mi pare però che sto divagando nella divagazione con il rischio di perdervi  per strada e di non riuscire ad arrivare al deposito di pigne come mi ero riproposto quindi torniamo al mio passaporto con visto e al mio conseguente viaggio a Mosca:

Ore 12,  io che sole 4 ore prima ero nel cuore della mia prima Roma immerso in una luminosissima mattinata di primavera, mi ritrovavo avvolto dalle diverse tonalità di grigio che caratterizzano sia il cielo che l’atmosfera nell’aerostazione della città di Mosca. E proprio a causa di quel grigio il giallo del postit nel quale era indicato il mio primo obiettivo e le sommarie indicazioni per raggiungerlo balzava agli occhi più del normale. Dopo aver ignorato le pressanti offerte di quel sottobosco di taxisti abusivi e non, che come a Roma si avventano come rapaci sul turista, individuo il pulmino scassato che Vik mi aveva detto di prendere per raggiungere l’ultima stazione della metropolitana di Mosca.

Sono dentro il pulmino e mi sento in Russia, ma non nella Russia dei turisti, nella Russia dei russi! Anzi nella Russia tra i russi visto che l’esiguo spazio del pulmino faceva sì che il contatto con la popolazione “locale” fosse realmente tale.

Tutto là dentro parlava di Russia, il vocione da tribuno di chi dietro di me diceva cose che seppure incomprensibili suonavano essere divertenti ed argute visto i sorrisi che suscitavano negli altri compagni di viaggio; lo sguardo assente della mia vicina tipico di chi accetta con rassegnazione un destino incolore; l’oro e i gioielli ostentati della mia dirimpettaia ossigenata e cellulare munita, unica insieme a me proveniente dall’aeroporto, come provava il cartellino hand baggage ancora attaccato alla borsa di Vuitton che teneva appoggiata a mo’ di trofeo sulle ginocchia,  donatagli insieme al resto da uno dei suoi diversi “amici” occidentali.

Ma la cosa che più di ogni altra mi faceva capire di essere in Russia era l’odore che si respirava, un odore che non era né peggio né meglio di quello che si sente in situazioni analoghe in Italia, ma assolutamente e indubitabilmente diverso, al pari dei gusto del  cibo che caratterizza il mangiare russo (è infatti indubitabile il nesso tra i cibi mangiati e l’odore di un popolo).

Scendo dal pulmino e dopo aver seguito i miei temporanei compagni di viaggio che alla mia richiesta Stazione Universitaya, accompagnata dall’esibizione di una cartina della metropolitana moscovita che avevo stampato da internet, mi avevano fatto capire di seguirli, essendo anch’essi diretti là, salgo sulla famosa metropolitana di Mosca.

Dopo un attento studio e valutazione di tutti i dati a mia disposizione scendo alla 12° fermata che in basi ai miei calcoli doveva essere quella più vicina al luogo di appuntamento che avevo scenograficamente concordato con Vik: di fronte al Teatro Bolshoj (c’è chi si incontra a piazza Euclide, chi di fronte al Teatro Bolshoj, noblesse oblige).

Trovo Vik semicongelata a causa dell’abbigliamento non adeguato alla temperatura del luogo (chiodino di pelle nera e 2 gradi fahreneit) e dopo averla salutata affettuosamente le do’ una delle mie giacche in pile da me indossate a mo’ di cipolla (prima di partire non fidandomi delle informazioni da lei fornitemi circa il clima primaverile che avrei trovato, ero entrato in un sito meteo internazionale e in base ad esso avevo stabilito il mio vestiario per la spedizione in terra russa).

“Ok andiamo nella casa dove dormirai ad appoggiare il bagaglio” disse Vik, ridirigendosi verso la metro, che per me era già diventato un mezzo familiare, come familiare era la conversazione che avevo con Vika. Era come se ci fossimo incontrati il giorno prima e io provenissi da qualche fermata prima, tutto ciò che ci circondava era scontato per lei come lo era per me, la metropolitana di mosca era un mezzo per spostarsi e non qualcosa da osservare con turistica ammirazione così come il Bolshoi era stato, poco prima, un semplice punto d’incontro.

Ma torniamo a Vik, lei è un grillo intelligente in cui la scaltrezza e ingenuità si annullano, incapace di organizzare una strategia di vita per un tempo superiore al mese, ma al tempo stesso sempre in grado di trovare di che sostentare il suo fisico ed il suo spirito, una gatta apolide naturalmente elegante che un giorno fa le fusa sinceramente affettuosa ed il successivo sparisce priva di legami o di rimpianti, ed infine, e qui termino, è dotata della cognizione dell’assoluto ma non ne è così interessata, vive il relativo ma ne è distaccata.

Penso però che se continuo così non arriverò mai a spiegarvi il perché di un deposito di pigne a palazzo, quindi è meglio che mi dia una regolata, cessando all’istante le divagazioni:

A palazzo Altieri  c’è un deposito di pigne perché durante una delle conversazioni avute con Vik nel mio soggiorno moscovita, lei mi aveva raccontato delle leggendarie qualità dei pinoli del Caucaso, fonti di vitalità ed energia, suscitando in me un idea: perché non trasporti e vendi in europa tali pinoli utilizzando i container che un nostro amico comune faceva tornare in Italia vuoti dopo avervi trasportato mobili importati dall’Italia.

Detto fatto, ecco quindi spiegato in un colpo solo: il  perché della moda dei pinoli del Caucaso diffusa in tutta europa, il perché del deposito di pigne a Palazzo ed infine il perché adesso Vik è un pò meno grillo ed un pò più formica.


Mi sono stufato

 Sì  lo so, ho fatto una lista che indicava i laboratori presenti nel palazzo ed ho cominciato a descriverne alcuni lasciando cosi intendere che per ognuno di essi vi sarebbe stata, da parte mia, almeno una sommaria descrizione, ma non sarà così perché mi sono stufato di parlarne ed essendo questo scritto il frutto della mia trovata libertà non vedo perché dovrei proprio a causa di esso di nuovo perderla per soddisfare le razionali esigenze di un editore o le aspettative di un lettore pigramente preveduto.

Chiunque legga queste pagine deve capire una cosa molto importante: non aspettatevi niente da me perché sono io che mi aspetto molto  da voi. Se vi è infatti anche una  sola cosa descritta nel libro o scaturita nella vostra mente a seguito della sua lettura che pensate sia piacevole è vostro dovere di cercare di realizzarla.

Mi spiego meglio se siete degli architetti e/o dei muratori e la descrizione della casa di L vi è piaciuta, costruitela!!!!! se se siete degli stilisti e/o delle sartine e vi hanno interessato gli abiti di L realizzateli, se siete dei localari e/o dei baristi e vi è piaciuto il bar di Berlino, apritelo, se siete degli editori e vi è piaciuto ciò che state leggendo, pubblicatelo, yalla, yalla.

 

Il messaggio è chiaro: ti piace il mondo fin qui descritto, join the crew, entra a farne parte e aiuta a realizzarlo.

Ma torniamo ai laboratori, come vi ho detto non mi va più di descriverli ritengo però mio dovere sottolineare quale sia lo spirito su cui si basano: è importante sia la teoria che la pratica, sia avere le idee sia le capacità e/o i mezzi per realizzarle, l’uomo è grande perché ha le mani, viva la Bauhaus.

 

Viva la Bauhaus

Una mia amica tedesca di Berlino (un altro film di cui forse vi parlerò un’altra volta), che aveva bevuto un tè a casa mia a palazzo Altieri,  ricordandosi della mia teiera mi chiama e mi dice di essere stata a Dessau ad una mostra sulla Bauhaus e di averla vista (la teiera) insieme ad una serie di oggetti bellissimi.

Incuriosito l’indomani in ufficio incomincio a leggere tutto quello che trovo on line su questo movimento architettonico e scopro, finalmente, di non essere solo,  anzi che non lo sarei stato se fossi vissuto nei primi anni venti in Germania.

Leggere gli scritti di studiosi che cercano di descriverti i principi e l’essenza di un movimento, di cui senza rendersene conto si è sempre fatto parte, è una sensazione all’inizio bellissima che poi diventa sgradevole.

All’inizio ci si sente gratificati dal fatto che  le proprie idee trovano conferma nelle opere di alcuni la cui validità e genialità è stata già riconosciuta, successivamente però si percepisce sia  l’inadeguatezza degli studiosi di quel movimento, sia, cosa ben più grave, di quelli che ne dovrebbero essere gli eredi.

L’inadeguatezza degli eredi genera in me una senso di rabbia dovuta solo ed esclusivamente a motivi egoistici: se vi fossero (intorno a me) degli eredi  di  Gropius, Mies van de Rohe o Le Corbuiser degni di questo nome per me sarebbe una pacchia, mi  basterebbe frequentarli e collaborare con loro, facendo solo la mia parte. E invece no.

Mi sento come un devoto di S.Ubaldo, la cui pura e sincera vocazione lo spinge a far sì che il pesante  cero votivo in onore del santo raggiunga, il più velocemente possibile,  attraverso le strette vie di Gubbio,  il monastero in cima alla montagna, conscio però sia  che la propria  passione e forza senza l’aiuto di altri sono assolutamente insufficienti per raggiungere l’obbiettivo, sia d’altro canto che queste sono così rilevanti da non poter essere immoralmente  sprecate.

Preso da questo sacro fuoco verso la Bauhaus, specie dopo essermi reso conto che una delle mie nature è Bauhaus, decido di passare dalle parole ai fatti (dalla teoria alla pratica molto Bau haus anche questo) e chiamo una mia conoscente che oltre ad essere architetto ricordavo avere un qualche ruolo all’interno dell’università.

Mi incontro con lei in facoltà a villa Giulia: il mio primo incontro con Giulia è una sorta di colpo di fulmine, mi aggiro come tarantolato per tutte le sue aule e corridoi  in preda ad una sorta di eccitazione costruttiva derivante dallo scontro di due sentimenti apparentemente (come al solito) discordanti: l’entusiastico apprezzamento di ciò che mi stava intorno e il caustico disprezzo per ciò, che a mio pensare,  lo rovinava, lo incrostava nascondendone l’essenza.

La sensazione che vivevo è analoga a quella che provo quando si esce con qualcuna che si giudica intellettualmente e fisicamente hiper e che anziché far trasparire naturalmente le proprie qualità ricorre a trucchi ed  abiti mentali che non solo non gli appartengono  ma che a lungo andare, se troppo indossati, sono purtroppo in grado di surgelarne e nasconderne la natura originaria per sempre.

La cosa più drammatica è la percezione che la scelta è quasi sempre dovuta non a una decisione che seppur (a mio giudizio) sbagliata è stata voluta, quanto (cosa per me inaccettabile) al caso: l’aula magna della facoltà è  una struttura splendida e funzionale la cui estetica è stata rovinata da stratificazioni successive di colori scelti a caso dall’imbianchino di turno  o da fili elettrici e relative canaline, applicati dall’operaio sempre di turno. Insomma l’estetica della casa degli architetti e degli insegnanti degli architetti è stata decisa dal turno del relativo operaio, così come l’interesse e la passione per un determinato artista o fenomeno tecnologico di quella hiper in potenza con cui sono uscito è dovuto all’ultimo inserto sfogliato di qualche quotidiano.

 

Quel giorno la botta era stata troppo forte tanto che non ho fatto neanche in tempo a pensare che dovevo fare qualcosa per salvare Giulia, tale fase era stata saltata, ero passato direttamente all’azione.  Dentro di me si era materializzata la soluzione che come magicamente contemperava l’idealità e la concretezza, l’istinto e la ragione: organizziamo un concorso “rifacciamo il trucco a Giulia”. In questo concorso gli studenti, divisi in gruppi, avrebbero dovuto presentare dei progetti di ristrutturazione delle diverse aule della facoltà; progetti nei quali, oltre ai disegni, avrebbero dovuto essere indicati non solo tutti i materiali che prevedevano di utilizzare (specificando anche i nomi dei fornitori e i recapiti) ma  anche la propria disponibilità a integrare le professionalità di cui intendevano avvalersi  per realizzare i lavori (per professionalità si intendono sia operai che progettisti indicando il tipo di  personale di cui si ritiene necessaria l’integrazione).

Una commissione composta dai professori della facoltà avrebbe avuto l’incarico, non solo di selezionare i progetti migliori, ma anche di contattare i fornitori in essi indicati al fine di contrattare la condizioni più vantaggiose (possibilmente gratis) .

Purtroppo questa storia non è a lieto fine: sono di fronte al preside della facoltà e capisco subito la sua natura ”fare per essere e non essere per fare”, intuizione confermatami dall’attenzione che (a seguito della mia presentazione come responsabile …della televisione…) rivolge al mio ruolo e al suono delle mie parole piuttosto che ai loro contenuti.

Come al solito mi trovo di fronte ad un bivio: sfruttare questo appeal per raggiungere il simulacro del mio obbiettivo o tentare il colpo secco e diretto. Scelgo la seconda e per me unica via e anzichè blandirlo offrendogli quello che si aspettava o a cui aspirava (eventuali passaggi televisivi) gli offro la forza delle mie braccia per lucidare il mancorrente di ottone della scala principale. Bye bye baby.

 

Idea, azione e costruzione Bauhaus

Sono le tre di notte di venerdì, sono coricato a letto per niente stanco ma in quella situazione di isolamento, di tranquillità e di distacco dal resto del mondo che anzichè conciliarmi il sonno, come normalmente accade, stava favorendo qualcosa d’altro. Sentivo che dentro di me stava avvenendo una sorte di processo di coagulazione, era come se le informazioni, le sensazioni, le emozioni, gli spunti, che avevo acquisito durante la giornata, le giornate precedenti, la vita vissuta fino ad allora si mescolassero tra di loro generando qualcosa di nuovo. Io non avevo una funzione attiva in quel processo, ero solo il luogo dove questo avveniva. Il mio merito, se  mai avevo un merito, era quello di aver “materialmente” raccolto e acquisito quegli elementi ingredienti,  il mio dovere, una volta che quelli elementi si fossero magicamente coagulati in me generando qualcosa di nuovo, era di esternarli/realizzarli. Ritengo infatti che la parte più importante del processo creativo e cioè la miscelazione dei componenti, avvenga indipendentemente dalla volontà di quello che viene considerato il creativo/creatore che è in realtà è semplice luogo, e derivi piuttosto dalla autonoma capacità di quegli elementi di interagire tra loro una volta messi in contatto

Il processo in quel momento era stato:

-acquisto in un deposito di cianfrusaglie di una sorta di tasca rettangolare di tessuto grigio con da un lato cucito sopra un pezzo di lana cotta di un rosso acceso;

-astrazione dalla destinazione iniziale d’uso dell’oggetto (favorita in quel caso dal fatto che era sconosciuta);

-individuazione della nuova destinazione d’uso: parte di una gonna? Una borsa? Si una borsa!!! Vedo che è una borsa ok;

-realizzazione degli elementi che la rendono utilizzabile come borsa manico e chiusura e di uteriori elementi estetici che la caratterizzino

 

Detto fatto: ecco la borsa, se volete compratela: solo 5 esemplari al mondo, costo 500 euro.

 

Mayday

Ok, fino ad esso ho parlato solo di L e del gruppo/tribù ma spero (da buon egocentico) che un pizzico di curiosità nei miei confronti vi sia venuta: chi sono, che cosa faccio?

Generalmente, a chi mi rivolge queste domande io non rispondo o almeno cerco di non rispondere per delle ragioni precise:

chi sono io devi capirlo o non capirlo da solo, se necessiti di una spiegazione e di una posologia vuol dire che non sei in grado,  nè sarai in grado in futuro, di comprendermi nonostante tutte le spiegazioni e le presentazioni io o altri possano fare  (ok avete ragione come posso dire ciò quando poche righe fa ho fatto proprio la presentazione del mio pensiero e dei miei ideali);

per quanto riguarda la ritrosia nel rispondere alla seconda domanda (cosa faccio?) questa deriva dalla paranoica considerazione che chi mi rivolge questa domanda, nel farlo, dà prova, again, di volermi inquadrare in una categoria, dimostrando allo stesso tempo, sia la sua limitante necessità di  dover  incasellare tutti i suoi interlocutori in classi predefinite, sia la sua incapacità nel farlo (io appartengo ad almeno una decina di categorie, stolto!!!!!!!)

 

Comunque bando alla retorica e alle paranoiche dialettiche che qualche volta (spesso) mi caratterizzano ed ecco la risposta: io sono il direttore dell’area X della K s.p.a. e in realtà, ad essere onesto a costo di contraddirmi, sono felice (mi illumino d’immenso) che qualcuno nel domandarmelo mi da la possibilità di ostentarlo e di gridarlo. Si sono felice perché sono conscio, e me ne compiaccio, che nel dirlo acquisisco immediatamente agli occhi del mio interlocutore (o meglio ancora interlocutrice) importanza e prestigio (senza dover ricorrere a quelle estenuanti e poco fruttuose ostentazioni pseudo intellettuali falso modeste o a frasi ad effetto tanto esoteriche quanto inutili).

 

Ma la cosa che mi preme adesso raccontarvi è come io abbia raggiunto una così elevata posizione di potere all’interno della K s.p.a., semplice attraverso la violenza e la sopraffazione.

E’ andata pressappoco così:

 

Sono chiuso nella mia stanza 4 metri per 3 dove da tre anni a questa parte io spendo in ogni giorno feriale almeno 8,5 ore della mia vita senza fare niente o meglio senza che l’azienda che mi ha assunto mi faccia fare niente: sto fissando il mio curriculum che per l’ennesima volta ho cercato di far pervenire al direttore generale nella speranza di venire utilizzato in quello che è giusto io debba fare, e più lo leggo più il mio stato di impotenza aumenta.

Il mio cv è praticamente perfetto, anche volendo sarebbe impossibile migliorarlo. (vedi cv allegato)

Mi sento come un centometrista a cui le doti fisiche donategli da madre natura, associate al suo impegno e alla sua caparbietà, hanno permesso di correre i cento metri più velocemente di chiunque altro ma che non è stato selezionato nella squadra perché l’allenatore ha individuato, come parametro, non la velocità ma il colore dei calzini indossati.

Sono disperato perché anche il dolorosissimo tentativo di indossare un paio di calzini il cui colore potesse risultare gradevole all’allenatore non era andato in porto, nonostante tutti i miei sforzi.

Depresso chiamo Sly (l’unico del gruppo che sapeva tutta la storia) per sfogarmi e cercare conforto.

Sly dopo avermi tranquilizzato decide che era il caso di lanciare il Mayday: scrive un breve testo in inglese e italiano “dobbiamo far diventare Det direttore dell’area X della K s.p.a.” attacca il codice **** e invia il messaggio al group.

Immediatamente tutti i cellulari degli appartenenti al gruppo, ricevendo il messaggio, incominciarono a suonare con un volume crescente la traccia Mayday di Westbam (famosa traccia techno n.d.r.) in cui la frase mayday risuona richiamando a raccolta tutte le energie del gruppo. Per interrompere quella suoneria si deve o distruggere il telefono o inviare un sms di risposta con la parola “presente” sia a chi ha lanciato il may day sia  alla persona per la quale è stato richiesto l’aiuto.

Ricevere uno dopo l’altro tutti i messaggi di ritorno (che a loro volta attivano la suoneria mayday) dei componenti del gruppo è un iniezione di fiducia energia e forza che penso nessuna droga al mondo è in grado di dare.

Sapere che tutti i tuoi amici sparsi nel tempo (i diversi fusi orari) e nello spazio (i diversi territori del globo) ti sono vicino e pronti ad aiutarti  è il massimo che si possa desiderare quando si è giù; si è spinti verso l’alto immediatamente e più velocemente di quanto sia in grado di fare il più potente dei vettori arianne attualmente costruiti.

La procedura prevede che il messaggio di risposta “presente” arrivi a chi ha lanciato il mayday  perché è questi che, essendo una sorta di coordinatore degli interventi,  avrà il compito di pensare la strategia e decidere chi dovrà intervenire e cosa dovrà fare.

Il coordinatore riceve le risposte di disponibilità ad agire (il “presente”) poi individua la strategia e invia a ciascuno dei soggetti coinvolti un messaggio con indicato il compito da eseguire. Chi lo riceve risponde con un messaggio dove la parola “presente” (indicatrice di una potenzialità) si trasforma nella parola “agente” (indicatrice che si stà già operando per la soluzione).

 

Nel caso in oggetto uno dei soggetti che ricevettero la richiesta di aiuto non rispose con il rituale “presente” aspettando l’indicazione del compito assegnato, ma con un istantaneo “agente”:

Yuko Kairazu appena ricevuto il mayday chiamò il padre Kairazu san. il quale a sua volta, appena sentita la richiesta della figlia, chiamò, prima la sua segretaria per prenotare il primo volo “disponibile” per Roma. (quando dico disponibile intendo esistente perché, come capirete presto,  il fatto che il volo sia full booked non comporta che non vi siano posti disponibili per mr Kairazu), poi il ministro degli esteri giapponese chiedendogli se gli era possibile intercedere per avere il giorno successivo un appuntamento con il Direttore generale di K s.p.a. .

Nel giro di 30 minuti dal lancio del mayday, Mr Kairazu  aveva un posto in bussines class sul volo J993 Tokio – Roma e un appuntamento con  Il dott Remote direttore generale della K s.p.a. per il giorno successivo.

Ore 9.30,  via dei Giardini 18, una mercedes 600 nera con vetri oscurati si fermò davanti all’ingresso della sede della K s.p.a.,  ne scesero un anziana signora giapponese, dai capelli grigi come il suo copriabito, accompagnata da un ragazzo, anch’esso giapponese, con un vestito nero, camicia nera, cravatta nera, scarpe nere (lucidissime) che nel porgergli la mano per aiutarla mostrò involontariamente il finissimo tatuaggio che gli ricopriva il dorso della mano proveniendo dal polsino della camicia (tatuaggio così nitido e definito a causa della quantità di punti che lo costituivano da sembrare un immagine ad alta definizione di uno schermo al plasma di ultima generazione).La signora entrò nel palazzo e raggiunse il desk all’ingresso preannunciando l’arrivo di mr Kairazu.

Dopo non più di tre minuti  sopraggiunsero altre due 600 nere, da cui scesero prima tre body guard, le cui fattezze ed estetica erano identiche a quelle del ragazzo precedentemente descritto, che con il loro fare dannatamente professionale, di chi sa quello che fa, rendevano ancora più caricaturale la figura del vigilante/ padre di famiglia che “presidiava” la porta di ingresso (che però proprio per la sua lampante ed evidente inettitudine trasmetteva, invece, un senso di tranquillità a chi lavorava nel palazzo -il ragionamento inconscio è evidentissimo: se in questo luogo vi fosse qualche pericolo non metterebbero un barbagianni del genere alla porta, quindi questo posto è sicurissimo-).

Mr Kairazu scese per ultimo, raggiunse l’ingresso dove l’attendevano la sua anziana segretaria e la segretaria del direttore generale che nel frattempo era sopraggiunta per accogliere l’ospite. La inusuale comitiva (le due segretarie, Mr Kairazu e uno dei bodyguard) si avviò verso l’ascensore, ma la cosa stranamente evidente a chiunque avesse osservato la scena, era che a fare strada  fosse il bodyguard nipponico e  non, come ci si poteva aspettare, la segretaria di Remote la quale, al contrario sembrava essere anziché padrona di casa una visitatrice.

Lei era completamente frastornata dall’intraprendenza e dalla sicurezza degli ospiti. In particolare il colpo di grazia che la mise ko fu non solo che questi si fossero diretti, senza alcuna esitazione, verso l’unico dei 4 ascensori disponibili che andava direttamente al 9 piano, ma che disponessero anche della chiave riservata per attivarlo. Era per lei assolutamente chiaro e al tempo stesso del tutto incomprensibile che quei giapponesi conoscevano il posto meglio di lei che vi lavorava da più di 20 anni.

Arrivati di fronte alla porta che suddivide le stanze del direttore generale da quelle del resto del piano, con un impeto di orgoglio, riprese il comando e fece accomodare “i giappo” nella sala di aspetto per poi tornare, dopo solo un minuto, per condurre mr. Kairazu nella stanza del direttore.

L’incontro tra Mr Kairazu e il direttore generale della K s.p.a. fu memorabile, almeno per quest‘ultimo, è altrettanto memorabile furono le poche parole dette da Mr Kairazu: “-sono molto onorato che lei mi abbia concesso una parte della cosa più preziosa di cui ogni uomo dispone, il tempo, e per questo non intendo assolutamente prendergliene più del necessario; la ragione che mi ha spinto a venire fin qua è la necessità di chiederle a nome mio ed a nome dell’antica organizzazione che ho l’onore di dirigere, di nominare Mr Det direttore dell’area X della azienda da lei diretta”

Terminata la richiesta, il cui tono pacato e cordiale la rendeva, per converso, più cogente e assoluta di un ordine rabbiosamente gridato, Mr Kairazu, con una teatralità degna del miglior teatro del no, fece come per rialzarsi con un movimento, che sebbene fosse quasi impercettibile, fu sufficiente a ingenerare nell’interlocutore la liberatoria impressione che l’incontro fosse concluso. Impressione che prima ancora di potersi espandere completamente nella mente del direttore generale, fu repentinamente dissolta da un: “a dimenticavo il regalo” che risuonò  nella stanza più  funestamente di quanto avrebbe potuto fare una minaccia: “ è nell’ultimo cassetto in basso della sua scrivania, lo prenda”. Remote si piegò, aprì il cassetto e vi trovò una scatola in pelle nera, la aprì e uno splendido jaeger le coultre in oro bianco apparve ai suoi occhi. “ da quanto mi hanno riferito lei è un appassionato di orologi e perciò dovrebbe sapere che questo modello è l’orologio a carica manuale che ha la  durata di corda più lunga al mondo, ben 48 ore. Come lei avrà immediatamente notato l’orologio in questione è stato privato della corona di carica poichè non sono solito regalare cose superflue o non necessarie, per questo ho preferito tenerla io” e così dicendo aprì con una lenta rotazione il pugno e la mostrò. ”Ma non si preoccupi, se le sarà necessaria gli verrà data per tempo” e nel concludere la frase si alzò in piedi e dopo aver fatto un ossequioso inchino con la testa si allontanò.

Nel giro di due soli giorni fui nominato dal consiglio di amministrazione direttore dell’area X e il direttore generale ebbe la sua corona per ricaricare il suo orologio e la sua vita.

 

P.s  chi sia Yuko Kairazu  e perché il padre sia intervenuto tanto repentinamente per “aiutarmi” ve lo spiegherò, forse, e se mi va, dopo o forse mai.

 

Giovedì……..Luv Club

Ma facciamo un piccolo salto indietro e torniamo a quando dopo l’illuminazione berlinese sono tornato a Roma e nonostante la mia vita abbia avuto subito sostanziali modifiche ero tornato, in parte, ai vecchi loop:

 

È giovedì e  come tutti i giovedì sto al Luv Club.

Questa volta però ciò che mi ha spinto ad andare lì non è tanto l’abitudine o, ante L, il desiderio/speranza di trovare il mio catalizzatore ma piuttosto l’esigenza, per me assolutamente nuova ed inusuale di vincere la malinconia derivante proprio dalla lontananza da L.

 

La situazione è come da copione  un muro di persone stazionava di fronte all’entrata,  sono tutti  uguali ed hanno tutti un unico obbiettivo: quello di entrare.

Il loro è un entrare fine a se stesso, un entrare per entrare. Gli organizzatori proprio per soddisfare questa loro esigenza hanno studiato la serata prevedendo per loro diversi traguardi e lo hanno fatto con abilità pari a quella degli ideatori di giochi senza frontiere:

 

primo obiettivo

il primo obiettivo per tutti è oltrepassare la corda o il canapo che impedisce di raggiungere l’ingresso, ma vi è una regola ferrea: mai sganciarla da soli. Nessuno può toccare la corda, nessuno, né gli organizzatori né il più assiduo dei frequentatori, solo i buttafuori possono, solo a loro è permesso di sganciarla e aprire un varco a chi deve essere ammesso.

Ma chi deve essere ammesso? E soprattutto a chi spetta deciderlo?

Spiegarlo è difficile perché presuppone che si conosca lo strana separazione e sovrapposizione di competenze che vige all’interno di un club: è un sistema misto che mescola insieme rigide gerarchie, usi e consuetudini, regole scritte, regole non scritte, favori,  norme fiscali, alcool, favoritismi, affetto, cocaina, politica, delinquenza, sesso, finzione, buon senso, incoscienza, amore insomma presuppone che si conosca la vita (ammazza che bella frase!!!!!)

Il buttafuori rispetto alla corda è come il comandante di un aeromobile, in quanto responsabile della sicurezza ha l’ultima parola sulla decisione di far entrare o non fare entrare qualcuno, quindi, se vuole, può impedire l’accesso anche alla fidanzata di uno degli organizzatore se questa, a suo giudizio, può portare nocumento alla sicurezza.

 

Per poter oltrepassare la corda bisogna:

– raggiungerla attraversando con fare deciso ma non arrogante il muro umano che la copre (bisogna far capire alle persone che hai davanti che tu vuoi oltrepassarli perchè hai fondate possibilità, al contrario di loro, di entrare e per questo, loro malgrado, devono farsi da parte.)

-attirare l’attenzione del buttafuori al fine di avere un contatto verbale  con lui.

La cosa che mi ha sempre stupito della categoria dei buttafuori è la loro ingenuità e mancanza di perspicacia e intuizione: ti guardano sempre come se non sapessero le tue intenzioni o cosa ti a spinto a rivolgerti a loro, sono come impreparati rispetto alla richiesta che stai per fargli,  sembrano quasi domandarsi cosa vorrà questo da me, forse parlare della questione cecena o piuttosto della critica della ragion pura.

-La cosa che non bisogna mai, dico mai fare con questi personaggi  è quella che può sembrare la più normale e naturale: chiedere di entrare (del resto l’essere normali e naturali è un lusso che non è concesso a nessuno in questa società non si vede perché dovrebbe esservi un eccezione in questo caso)

-la frase da dire deve cominciare con il verbo sono ( sono amico di Andy, sono in lista, sono un giornalista della Rai, sono tuo fratello non mi riconosci!!!!) non sperate in questi momenti di trovare un aiuto esterno, siete soli di fronte al buttafuori, del resto anche se vi fosse vostro fratello che organizza la serata e questi si trovasse per caso a pochi centimetri da voi lui non riuscirebbe a vedere i vostri gesti,  non riuscirebbe a sentire le vostre implorazioni.

Una delle caratteristiche dell’organizzatore è quella di essere vagamente assente, è li ma lo  è per caso, ha sempre le spalle alla folla e lo sguardo rivolto al muro, quando non è assorto in conversazioni così profonde che lo estraneano dal luogo in cui si trova,  (comunque non fate i vaghi e non negate di averlo fatto anche voi, ho avete già  dimenticato di quella volta in cui eravate soli in ascensore  ed è salito un vostro vecchio compagno di scuola e siete riusciti per tutto il tragitto, 12 piani del pirellone, a non vederlo ed a non incrociare mai il vostro sguardo con il suo).

 

Secondo obiettivo: timbri privè

 

premesso che il timbri privè sono uno per il  privè normale e l’altro per il super privè, le vie per ottenerli sono due

 

-con il denaro (via che va bene per ottenere quasi tutte le cose in questa società) basta prenotare un tavolo

-con la conoscenza di Samy che è la vestale dei timbri e come tale è adorata e glorificata, seguita tutta la sera da uno sciame di questuanti che le implorano manifestandole una affetto e attenzioni che non hanno mai avuto neanche per le loro madri, (a proposito la timbratura evidenzia anche chi è la prima volta che entra al Luv Club: la frase scusa non è venuto dimostra inequivocabilmente la verginità al club ma ciononostante la risposta di Sim “è inchiostro invisibile” è sempre pronunciata con benevolenza e mai con arrogante strafottenza)

Come riconoscerle Samy? E’ facile, ha una coda di cavallo e sembra uscita direttamente dal set di grease STOP………rewind  torniamo all’inizio

 

E’ giovedì, è l’una e trenta,  un muro di persone staziona di fronte all’entrata del Luv Club, sulla piazzetta antistante arriva un taxi, scende una ragazza dai capelli corti biondi che indossa sopra una t-shirt bianca una sorta di salopette gonna di lana cotta grigia da cui escono due gambe lunge e magre coperte da una calzamaglia nera ed infilate in un paio di stivaletti neri la cui morbida suola nera è indubitabilmente  di puro lattice di caucciù. Finisce di pagare il taxista, afferra la enorme valigia in fibra di carbonio che questo gli porge e si avvia verso quella folla con il piglio di chi sa dove sta andando. Di colpo il muro umano si apre al suo cospetto al pari di quanto fecero, a suo tempo, le acque con Mosè, tutti sembravano intimiditi da lei (o forse dalla enorme valigia che brandiva a mo’ di ariete). Giunge davanti alla corda e anche il buttafuori (che non l’aveva mai vista prima) gli apre immediatamente la corda, lei va avanti e dopo una veloce ricognizione d’insieme si dirige senza tentennamenti verso una coda di cavallo rossa, la raggiunge appoggia la valigia e porgendo la sua mano le dice: “Hi Samy  sono L come stai”. Samy la guarda e per un attimo rimane come impietrita, non crede ai suoi occhi, poi incomincia a urlare presa da un impeto di gioia sincera e la abbraccia come si fa con una cara amica che non si vede da tempo poi si rivolge a Andy e Diana presentandogli ancora piena di entusiasmo L.

La cosa che più stupì tutti loro non fu solo il fatto che di colpo ebbero la prova che L esisteva veramente, ma anche che era esattamente come era stata descritta.

Non fanno in tempo a salutarla che L si è piegata sulle ginocchia  aperto l’enorme valigia e tirato fuori tre pacchetti uno per Andy uno per Diana e uno per Samy. Incuranti della gente, dei buttafuori, del caos che li circondano, tutti e tre spacchettano i loro doni con la stessa impazienza e lo stesso fervore che i bambini hanno sotto l’albero la notte di natale.

Il primo è Andy che appena vede il contenuto della scatoletta che conteneva il regalo si avventa su L abbracciandola come impazzito, (devo anche ammettere che lo stemma originale dei Mods di Amburgo con l’indicazione della data 1968 -proprio l’anno di nascita di Andy- era proprio un regalo azzeccato) la seconda a impazzire è Diana  che invece trova un anello molto simile al trinity disegnato da Cocteau per Cartier ma i cui tre anelli intrecciati che lo compongono sono uno di titanio uno di carbonio e uno di acciaio. L’ultima ad aprire il proprio regalo è Samy, apre una strana scatola che contiene una batteria come quella dei telefonini e una lattina come quella dei pomodori con l’apertura a strappo, dopo essersi quasi spezzata un unghia per tirare la linguetta (non dimentichiamoci che stiamo parlando di Samy, maldestra di default) riesce ad aprirla e vi tira fuori una strana giacca a vento  di un grigio scuro translucido, nella cui trama era possibile vedere annegati dei filamenti di rame il cui colore richiamava la tonalità del colore dei capelli di Samy ed il cui taglio ricordava quei bomberini leggeri della Lonsdale. Siamy la indossa subito e raggiante come non mai  si avvicina ad L per ringraziarla ma viene fermata da un wait is not finish.  L  prende le batterie contenute nella scatola le infila in una specie di tasca collocata sul bordo posteriore di colpo il filamento di rame si scalda diventando ancora più rosso e rendendo la giacca ancora più ipermodernamente bella e nel contempo ancora più funzionale (Gropius sarebbe contento per il perfetto matrimonio di estetica e funzionalità).

L. viene accompagnata dentro, Andy prende la pesante valigia per portarla nell’”ufficio” (stanzino ….) non prima che L vi abbia estratto un altro regalo un 12 inch in vinile trasparente per Aldo….Il tempo che passò da quando Aldo ricevette il disco e  le vibrazioni impresse sui suoi solchi si trasferirono sulla pista del Luv Club fu solo quello necessario per leggere copy 1/10 Jeff Miles, metterlo sul piatto, trovare la prima battuta e accoltellare il disco che incolpevolmente stava suonando in quel momento con “un taglio freddo” che rimarrà memorabile: fu la prima e l’unica volta che la frase Ich bin ein americanische spion (frase di apertura del pezzo, divenuta da quel momento un cult del suo genere) avrebbe risuonato senza  scatenare il tripudio della folla, nessuno era stato fino ad allora ancora morso dal tarantolare veleno che ogni battuta del disco iniettava accordando ogni vibrazione mentale o fisica dell’entità  che ne fosse sottoposta.

 

La palestra di Tricia e Franc

Sono le 9 meno un quarto e come tutti i mercoledì cerco di raggiungere la lezione di Tricia per tempo. Piove, fa freddo e il traffico è ancora più intenso del solito. I semafori, essendo dannatamente in ritardo sono, naturalmente, tutti dannatamente rossi.

Sono arrivato, parcheggio, metto la catena al motorino e mi fiondo più veloce della luce nello spogliatoio. Mi spoglio freneticamente appallottolando nella maniera più ordinata possibile la giacca la camicia, le bretelle, il gilet dentro l’unico armadietto che trovo vuoto dopo 20 tentativi, lo chiudo mi avvento al mio posto ancora miracolosamente libero e mentre gli altri cominciano i primi movimenti di riscaldamento mi allaccio i lunghi lacci delle mie reebook  avendovi preventivamente infilato la chiave del lucchetto. Ok sono pronto, posso cominciare anche io la lezione e dopo aver osservato con quale gamba stesse saltando la mia vicina, per sincronizzarmi al gruppo, incomincio a saltare anche io felice; davanti a me c’è Tricia che mi saluta sorridendomi con un occhiolino, intorno a me l’energia di 40 persone che ce la mettono tutta e saltano all’unisono seguendo le battute della cassa e la voce di Tricia.

Tricia è l’istruttrice, sud africana 30 anni,  fisico da mezzofondista, trascinante come la sua bellezza. Quello che impressiona del suo corpo è la proporzione dei suoi muscoli ed in particolare le  fasce muscolari allungate e asciuttamente potenti delle sue gambe. Vederne la contrazione durante gli esercizi è il migliore esempio, oltre che il più bello, di una lezione di ….non so ……, non saprei definire la sua lezione riconducendola ad una categoria predeterminata: è un misto tra una lezione di aerobica, di Boxe e una serata in discoteca.

Il tentativo di descrivervi la natura della lezione mi spinge necessariamente a introdurvi un’altra persona che con Tricia è istruttore nella palestra che io frequento: Franc.

Franc è fisicamente l’esatto opposto di Tricia, basso (le arriva alle spalle), con una muscolatura massiccia e molto appariscente ma dotato, da ex peso medio quale è, di un agilità e una velocità addirittura superiori alla eroina che vi ho descritto prima.

L’incontro/unione professionale tra Franc e Tricia, ha dato origine al tipo di lezione che prima cercavo di descrivervi. Tricia ha imparato da Franc i movimenti e gli esercizi del pugilato trasmettendogli in cambio l’armonia il ritmo e il dinamismo del suo passato di  ballerina moderna/velocista. Il mix di queste diverse esperienze, insieme all’energia che entrambi hanno ed emanano, ha fatto sì che le loro lezioni siano, almeno a parer mio, le migliori che si possano trovare non solo a Roma ma (esagero) nel mondo.

Sono passati 40 minuti la mia maglietta è completamente zuppa, madida di sudore, sono contento.

 

Teatro attack

Sono al  teatro Valle, la rappresentazione è ormai cominciata da una decina di minuti e la speranza che il mio giudizio negativo su ciò a cui stavo assistendo potesse miracolosamente cambiare era ormai del tutto svanita, sostituita da uno stato di crescente insofferenza che non poteva purtroppo neppure essere mitigata dall’astio nei confronti di chi, incastrandomi, aveva fatto sì che fossi sottoposto a tale tortura, visto che quella persona ero io medesimo. Anzi, il pensiero di aver liberamente scelto di essere lì, e di averlo fatto con sincero entusiasmo, cercando addirittura di fare proseliti, rendeva ancora più insopportabile il tutto.

In quel momento avrei voluto urlare verso quegli attori il mio disappunto e la mia rabbia, avrei voluto rubargli le battute per recitarle con la passione e il trasporto che loro non solo non avevano e non riuscivano a trasmettere ma, cosa ben più grave,  neanche tentavano di rappresentare, avrei voluto imbavagliare la protagonista che con la sua terribile voce nasale oltre ad avere l’ardire di essere lì a recitare si esibiva anche in alcuni pezzi cantati, avrei voluto rinchiudere il regista in un sacco di iuta insieme ad alcuni gatti selvatici e a dei sassi e lanciarlo nel tevere, per punirlo della sua totale inettitudine; ma anziché dare libero sfogo, in quel momento, a tutte quelle mie pulsioni ebbi un idea.

 

Otto mesi dopo

La rappresentazione (il Giulio Cesare di Shakespeare) era cominciata da circa una decina di minuti, al mio auricolare Aldo mi conferma di aver preso il controllo del mixer audio come concordato e questo prima che “GiulioCesare” avesse pronunciato la sua battuta introduttiva, faccio scattare il cronometro e comunico di essere pronto ad entrare in scena bisbigliando un “ready” che viene seguito da analoga frase pronunciata da tutti i componenti del commando, allo scopo sia di effettuare l’ultimo test sui radiomicrofoni, sia di dare avvio alla procedura di attacco concordata.

Aspetto che L pronunci il suo “ready” e dò il via al dirottamento, alla rappresentazione nella rappresentazione rubando sia la battuta che la scena all’attore che mal interpretava Bruto? aiutato da  Woo che, preso il controllo della regia luci, mi aveva puntato addosso un occhio di bue oscurando completamente il resto della sala.

Lo shock in sala fu enorme, shock per chi era sul palco più che per gli spettatori che immediatamente pensarono di trovarsi di fronte al solito colpo di scena previsto dal regista avente avuto, colpo di genio, per l’ennesima volta l’originalissima  e innovativa idea di rompere  quel muro che separa gli spettatori dalla scena, la realtà dalla rappresentazione, il reale dall’immaginario e trasformare il pubblico da soggetto passivo a soggetto attivo sia in quel teatro che nella vita!!!!!.

Termino la mia battuta e attendo la reazioni   dell’attore Pinco, che aveva di fronte a sé (come ovvio) due opzioni: continuare, andando avanti con la sua battuta o  interrompersi e a quel punto essere sostituito, come da noi previsto, da uno dei componenti del commando.

anche tu Bruto…” sputò fuori Pinco (scegliendo di non opporsi al dirottamento e di integrarsi con il commando) dopo un attimo di esitazione con lo sguardo perso di chi si domanda cosa sta accadendo al posto di quello arrogante e spavaldo del personaggio che stava rappresentando.

Il dirottamento era avvenuto, avevamo preso il controllo della scena, la nostra compagnia/commando aveva preso il posto di quella “ufficiale”, avevamo sostituito tutti coloro che per la loro inettitudine o il loro atteggiamento poco collaborativo ostacolavano la nostra missione: salvare il teatro.

 

Risto battaglia

Una delle categorie che meno sopporto è quella dei convenzionalmenteanticonvenzionali che è costituita da tutti coloro sono convinti di essere liberi aperti e per l’appunto non convenzionali, solo perché hanno deciso di esserlo o volerlo essere, e quindi pensano, dicono, indossano, fanno cose (a loro dire) non convenzionali.

Questa categoria di persone è assai diffusa in tutto il mondo ed è, secondo me, la categoria peggiore alla quale si possa appartenere (forse ancora peggio di quella – anch’essa assai diffusa nel mondo occidentale – a cui appartengo io: borghese che pensa di essere un illuministaromantico).

Della categoria dei convenzionalmenteanticonvenzionali  la specie più deteriore è quella del superborghese conversos: la massima consacrazione della “borghesità” è la sua abiura; non c’è niente di più borghese, per un borghese, che, da novello S.Francesco, rinnegare la propria natura bruciandola in una pira catartica idealmente localizzata  nella stessa piazza campo dei fiori dove bruciarono Giordano Bruno e dove (ironia della sorte) il padre gli ha comprato un attico restaurato da 1 miliardo e mezzo.

 

Tutte le volte che incontro degli appartenenti alla categoria sopra descritta sono solito mettere in scena una rappresentazione, ormai standard, che si basa quasi sempre sul medesimo schema:

– prima ingenerare l’idea che è per me evidentemente e invidiosamente chiaro che loro sono menti aperte, liberi, non prevedibili, mentre io conduco una esistenza grigia ignorando le innumerevoli sfaccettature della vita che solo loro hanno saputo e sanno cogliere e potrebbero, se mossi a compassione, miserevolmente disvelarmi;

–  poi improvvisamente con un repentino quanto spiazzante colpo di scena invertire i ruoli.

Dopo questa lunga premessa posso passare alla descrizione di una di queste rappresentazioni che vide coinvolta come attrice, un altro personaggio che ritengo necessario conosciate:  Kitta.

 

Ero seduto al tavolo del trandyristorante ABC insieme a Kitta. Kitta è nata 22 anni fa a Simferopol, vive in Italia dall’età di 15, pagata per camminare sui marciapiedi di alto bordo della moda, è elegante e selvatica come un bambù amazzonico, è fragile e tagliente come un coltello di ceramica giapponese per il sushi.

La scena e la cena erano quindi assolutamente tipiche: un classico ricco figlio di papà spidermunito con appartamento in centro e lavoro di prestigio privo di vizi che si illude che la sua coglionaggine non sia la sua natura ma piuttosto la conseguenza della sua libera e forte adesione a principi sani e corretti e che si porta dietro la classica zoccola d’alto bordo ostentando il fatto che il legame che le lega a lei non è briatoresco ma è basato sul rispetto e su di una profonda e sincera amicizia (in altri termini non……nemmeno).

Al tavolo di fianco al nostro vi era un allegra comitiva composta da 4 classici ricchi figli di papà spidermuniti con appartamento in centro e lavoro di prestigio accompagnati da 2 loro equivalenti  femminili pieni di vizi e che non si sono mai posti il problema se applicare o meno alcun tipo di principio.

Dopo pochi attimi accadde il prevedibile, uno dei quattro spidermuniti del secondo tipo cerca di rimorchiare Kitta favorito o meglio dire adescato dalla stessa che, come al solito, recitando la parte (o forse realmente essendola) della russa facile e svelta,  gli chiese, trapassandoli lo sguardo con i suoi occhi siderali, di accendergli la sigaretta (una delle sue mortali gitanes blu) che con un gesto teatralmente deciso delle sue dita lunghe ed affusolate aveva appena privata del filtro ed appoggiato ancora sbruffante di tabacco sulle sue labbra rosaviola prive  di alcun  colore o unguento lucidante e per questo ancora più  sensualmente ferine.

Da quel momento in poi il fare sicuro e deciso del tipo aumentavano in maniera proporzionale al suo stato di eccitazione ormonale; era praticamente perfetto, non sbagliava una mossa, sapeva e sentiva che avrebbe chiuso il deal la notte stessa, del resto, fino ad allora, era sempre stato così e la statistica basata sulla sua personale e trionfale esperienza gli confermavano questa sua convinzione.

La sua sicurezza si stava trasformando in certezza quando Kitta, interrompendo la loro eccitante conversazione, si alzò per andare in bagno… lui non aspettava altro, era giunto il momento per sferrare il suo colpo finale, quello della vittoria sicura; esattamente lo stesso che aveva spinto il famoso architetto che aveva progettato quel così innovativo locale a prevedere per ogni sala un unico bagno stile e dimensioni dc10, preceduto da un antibagno ugualmente esiguo dove troneggiava una lastra di lucidissimo acciaio inox, nella quale era incastonato un lavabo in cristallo, tutto ricordante stranamente le atmosfere aeroportuali (in particolare le piste di decollo).

Il caso volle che proprio pochi istanti dopo che Kitta si alzò perché spinta dalla necessità di utilizzare il bagno la stessa necessità colpì anche lui

Cosa accadde vi chiederete? Per rispondervi è giunta l’ora di descrivervi quello strano ciondolo che Kitta porta sempre con se appeso al collo: una piccola cannuccia in argento lunga non più di 10 cm a sezione decrescente (nel senso che il diametro della estremità iniziale è leggermente inferiore di quella finale, una specie di cono molto allungato) placcata in oro al suo interno. Questo grazioso ninnolo le era stato regalato da un pusher russo che lei frequentava quando ancora quattordicenne viveva a Mosca prima di venire in Italia.

Più che un ninnolo era in realtà un attrezzo da lavoro da drug dealer: serviva a sniffare cocaina senza inalarla, nella estremità dal diametro più esiguo veniva infatti inserito un leggero fitro che tratteneva la cocaina all’interno della cannuccia in modo tale da poterla raccogliere per sottoporla a un veloce test di qualità, in pratica una la sniffava in compagnia poi si ritirava in bagno e la controllava con un acid test.

Kitta utilizzò quell’attrezzo per anni durante la sua permanenza a Milano per arrotondare il suo saltuario ed incerto salario da modellina, rivendendo la neve che le offrivano quasi tutte le sere

 

Kitta ritornò dal bagno più lucida di quando vi era andata, lui, invece, era ormai sotto il controllo delle polveri e della bellezza di lei mentre io apparivo assolutamente assente dalla scena relegato ad un ruolo di mera comparsa.

321 changè, si invertono i ruoli. Kitta da zoccola russa si trasforma in Heidy che viene dalla campagna e io entro in campo, all’attacco:

“Guarda Det cosa mi ha offerto quel ragazzo in bagno, della polvere bianca, che cosa sara’ mai?”’ mi disse Kitta con un ingenuo candore da biancaneve, strizzandomi l’occhio e dando così inizio al contrattacco, ‘’non ne ho la minima idea”  le risposi io, “ lo chiedero’ direttamente a lui ….. hei tu, cosa hai dato alla mia amica?’’ dissi con un tono che potesse essere sentito distintamente da tutti i presenti, ‘’della polvere bianca, cocaina per caso? Come nei telefilm americani trasmessi in televisione?’’ poi rivolgendomi al proprietario del ristorante, che con fare amichevole era seduto al tavolo degli spidermuniti del secondo tipo a conversare/scherzare amabilmente con loro, lanciai un ulteriore attacco: ”complimenti per il suo locale, ed in particolare per il bagno che certamente, sia  per numero di piste, sia per il fornitissimo duty drugs free shop è senza dubbio meglio dell’aeroporto di Fiumicino’’. A quel punto il clima si fece immediatamente teso e il loro fare nei nostri confronti, si trasformò da fintamente amichevole in minaccioso. In particolare  il proprietario, in preda all’ ACC (alcol, collera, cocaina), anziche’ cercare di gettare acqua sul fuoco scelse il kerosene invitandomi, anzi invitandoci, a lasciare immediatamente il suo “rispettabile locale” seguendo il cameriere che ci avrebbe condotto alla porta o alrtrimenti avrebbe fatto intervenire il “personale della sicurezza”. La minaccia riecheggiava ancora nell’aria quando improvvisamente apparvero Hector con sulle spalle il piccolo Valerj e Dope al seguito.

Hector è cubano, 1,90, medaglia d’argento a Seul categoria pesi mediomassimi, scappato da Cuba nel 97 durante un ritiro a Città del Messico. Adesso vive a Roma con Kitta, le sue attuali occupazioni sono fare l’istruttore di pugilato in una palestra dei parioli e in una di corviale, e fare da “Padre” al piccolo Valerj che in quel momento gli dormiva sulle spalle nel suo zaino/culla.

Il ‘’trio’’ era da fotografia: un gigante nero di un mero e 90 in anfibi, pantaloni da combattimento e una t-shirt che con difficoltà riusciva a contenere una muscolatura esplosiva ed un angioletto con boccoli biondi e guanciotte pacioccose  assopito nel mondo dei sogni ed al seguito Dope allampanato più che mai che con un fazzoletto cercava di pulire il ciuccio di Val che era caduto per terra.

Hector dopo avermi salutato porse il bambino a Kitta e le si sedette accanto mentre Dope non aveva fatto in tempo a mettere le gambe sotto il tavolo che già aveva cominciato ad addentare dei grissini (vedere mangiare il secco ed ossuto Dope dei grissini e come vedere un cannibale nutrirsi di un suo simile).

La scena sembrava tratta da una commedia e io ero tutto felicemente preso nel mio doppio ruolo di attore/autore. Chiamai il cameriere e gli dissi che volevo ordinare per i miei amici ponendolo così di fronte a un bivio – servirci o condurci tutti alla porta come intimato da proprietario, essere o non essere? Il cameriere tanto pavidamente quanto saggiamente, anziche’ risolvere il dilemma autonomamente, decise di chiedere al  proprietario se poteva prendere le ordinazioni suscitando uno velo di risentimento nel volto di Victor che non comprendendo il senso della domanda e non conoscendo gli antefatti (antefatti è il termine perfetto in questa occasione!!!!) aveva subito pensato a problemi suscitati dal suo abbigliamento o dal colore della sua pelle.

A quel punto intervenne Kitta che mostrando la polvere bianca che aveva raccolto nel suo ninnolo ed indicando anche chi glielo aveva tanto amichevolmente offerta, fece sì che il risentimento che stava maturando in Victor si accentuasse ulteriormente………come è finita la storia vi chiederete? direi bene visto che lo spidermunito sbrasone del secondo tipo insieme al proprietario del  locale (che decise anche di offrirci la cena) si aggregarono al nostro tavolo e passarono tutta la sera ad ascoltare ammirati sia i racconti dei combattimenti di Victor sia la spiegazione tecnica di Dope (con tanto di acid test fatto seduta stante) sul perché la roba fornitagli dal loro pusher fosse da considerarsi di pessima qualità oltre che moralmente sconsigliabile.

P.s. duranti i racconti entrambi (lo sbrasone e il proprietario del locale) continuarono a cadenza regolare ad alzarsi, ma non per andare in “bagno” ma bensì a pregare gli avventori seduti agli altri tavoli  di spegnere le sigarette perche’: “qui c’è troppo fumo per il piccolo Valerj”.

 

Ci siete o ci fate ?

Sono ad una cena in cui i presenti si dividono in due categorie: quelli che traggono immediato piacere o vantaggio dall’essere lì in quel momento e quelli invece la cui presenza è dovuta alla speranza di poterne trarne vantaggio in futuro. E’ insomma una sorta di mercatino dove si forniscono delle prestazioni ricevendo in cambio o un’altra prestazione, immediatamente godibile, o un titolo/speranza per poterne fruire una in futuro.

 

Le ragioni per cui sono stato invitato ( cioè le prestazioni che mi sono richieste) sono in ordine di importanza:

– pareggiare il conto maschi femmine.

– attenuare il senso di disagio che una delle invitate “importanti” potrebbe avere nel sentirsi sola (o single) al contrario della maggior parte delle sue coetanee felicemente accompagnate se non nella vita almeno in quella cena.

– ingenerare nell’invitata di cui sopra la falsa speranza che, a quella cena, potrebbe accadere qualcosa che possa mutare il suo status.

– essere con la mia arguzia opportunamente castrata dall’interesse (e quindi assolutamente non pericolosa) quella finta nota critica atta a rafforzare più che minare le convinzioni/convenzioni degli astanti.

Insomma con la mia presenza fornisco immediatamente la prestazione che mi è richiesta.

La ragione che mi ha spinto a partecipare alla cena è la speranza che alcuni dei presenti mi possano aiutare “a fare carriera”. A fronte quindi di una mia prestazione effettiva mi viene dato un titolo di credito per averne una da loro in un futuro prossimo (una raccomandazione).

In realtà, ad essere onesti, oltre a questo titolo non immediatamente liquidabile e purtroppo del tutto aleatorio, mi vengono forniti anche un certo numero di spiccetti immediatamente utilizzabili:   ognuno di questi permette di ostentare la propria vicinanza e la familiarità con personaggi potenti e/o famosi presenti alla cena e di ottenere nell’immediato anche qualche vantaggio concreto.

Il poter inserire in una conversazioni un nome di battesimo al posto di un cognome o di una carica istituzionale, ti fa guadagnare in certi ambienti punti e vantaggi, in quanto diventi tu il soggetto potenzialmente fruitore di favori e al quale addirittura fornire prestazione sulla parola (come stavo facendo io in quel momento).

 

Sono dentro ad una recita.

Regola numero uno per ogni attore[5] è quella di far apparire la propria rappresentazione come la cosa più naturale e spontanea  che esista, tanto è più bravo tanto gli artifizi da lui utilizzati per creare la finzione richiesta sembreranno non esistere.

Il ruolo che mi è richiesto di recitare nella rappresentazione “Cena dei Potenti” è molto complesso, devo infatti, nell’ostentare una familiarità e una finta informalità, farmi da loro categorizzare nella categoria di quelli “con personalità” una sorta di “audience qualificata”, in modo che i miei  giudizi e/o apprezzamenti nei loro confronti siano più gratificanti di quelli del normale volgo, che ha nei loro confronti uno stato di soggezione.

Devo quindi essere fintamente sprezzante ed  ironico solo quel tanto che è necessario per far apparire i miei successivi  apprezzamenti come sinceri e non adulatori, senza mai e dico mai far trasparire il mio reale giudizio, cosa questa per me assai difficile.

 

Quando li osservo una domanda si ripete dentro di me, ci sono o ci fanno?

 

Funerale OL

Di colpo la prenotazione per il volo Roma /NY, il posto branda nella camerata dell’accademia, le lenzuola macchiate di letti sfatti, la scrivania di acciaio e mogano erano svaniti, cancellati, evaporati, come le scene assegnate ad un attore divenuto indisponibile troppo tardi per essere sostituito. Il destino, supremo regista, avrebbe assegnato ad altri quei posti, quei letti, quelle battute, sparpagliandole in altre vite, in altre rappresentazioni.

Ragionare da novelli Virgilio sulle spoglie del nostro Marcello (Eneide VI, 878) era tanto inutile quanto venefico; l’unica cosa da fare era invece continuare a sgomitare con il destino cercando (o forse illudendosi ) di influenzarlo e di deviarne anche se di pochi gradi la direzione.

Le persone che popolavano la chiesa apparivano nel loro insieme come quegli agglomerati metallici scompostamente composti da elementi assolutamente eterogenei: rugginosi ossidi di ferro, gemme di sale mescolate a  purissimi diamanti nascosti  alla vista allo stesso modo delle pagliuzze d’oro, (sentori di vene rigogliose)  che galleggiavano su di un immensa distesa di piombo, ancora allo stato fuso, avvolgendo ogni cosa e distorcendo con il suo calore le immagini e la realtà.

Piombo erano le parole dell’officiante che, con un immensa marchetta apostolica, blandiva gli astanti il cui rumore non riusciva comunque a disturbare il dolore degli addolorati, avvolti da una miracolosa lucidità che come un bisturi sembrava essere riuscita a raggiungere il dicotomico obbiettivo di rimuovere la mancanza mantenendo inalterato l’affetto e il ricordo.

Niente era cambiato rispetto a OL, come non cambia niente rispetto a qualcuno quando il suo telefono è irraggiungibile o la sua presenza fisica non è vicina.  L’unica cosa che era cambiata era  l’incertezza temporale sul ritorno del campo, sul ritorno della presenza.

Alla stessa maniera non era di fastidio lo squillo di cellulari limitato a soli pochi casi, del tutto fisiologici e statisticamente accettabili considerata la partecipazione numerosa di tanti e siffatti metalli pesanti e idrocarburi incombusti.

 

Qualcosa, che si era nel giusto nel pensare sarebbe accaduta (un trionfale crescendo dell’esistenza di OL), non si sarebbe realizzata quindi avevamo un credito nei confronti del destino che potevamo spendere per impedire  il prevedibile:

 

Comizio tribunizio 1

Sono le 11 e 40, L è già  pronta e mi aspetta sulla porta di casa ricordandomi ogni 30 secondi che siamo in ritardo (warning assolutamente inutile a velocizzare la mia già frenetica e iperaccelerata azione ma che però gli permetteva di acquisire dei crediti nei miei confronti, da utilizzare le milioni di volte che accadeva  il contrario, ed ero io che dovevo sopportare i suoi non teutonici ritardi).

Scendiamo precipitevolissimevolmente le scale poichè non vi era il tempo di attendere l’arrivo dell’ascensore che lei, essendo tutta presa dall’accumulare i crediti di cui sopra, si era ben guardata dal chiamare per guadagnare tempo, e usciamo sgommanti direzione Pio Istituto San Vattelapesca.

Mentre guidavo, pur essendo tutto concentrato nel tentativo di ridurre il più possibile il tempo di percorrenza  tra casa e il “pio istituto”, il mio sguardo, e a seguire il mio pensiero, non potè far altro che cadere su di lei: “ti avevo detto che dovevi tramortirli, non polverizzarli, non dovrei dirtelo, per non darti soddisfazione, ma sei pazzesca”. Ed era veramente pazzesca dalla punta delle sue Sigerson morris da 12 alla piccola forcina in titanio che vezzosamente le teneva ferma la frangetta. Ma quello che la rendeva hiper non era tanto quello che indossava, ma come lo indossava. Quelle scarpe che avrebbero reso barcollante e impacciata l’andatura anche della più esperta delle peripatetiche da passerella era come se non fossero esistite (forse anche a causa del passato di ballerina classica che, seppure prematuramente interrotto dalla ininterrotta crescita, le aveva dato una grazia ed un portamento ancora più regale di quello che le è naturale).

Entro nel cortile e mi fermo tirando il freno a mano provocando una leggera derapata del posteriore del pagoda ed un rumore non eccessivo ma sufficiente a destare l’attenzione di tutti su di noi. Scendo e conscio di aver, con quell’ingresso, sollevato il sipario comincio la rappresentazione. Giro intorno alla macchina ed apro lo sportello ad L porgendole la mia mano per aiutarla a scendere, saliamo le scale dell’istituto, entriamo e, raggiunti dal custode che era stato preavvisato della nostra venuta, veniamo condotti dal Preside Padre Mariani che dopo i convenevoli di rito e soprattutto dopo aver fatto un annuncio, con il quale invitava tutti gli studenti a raggiungere la sala magna, vi ci conduce.

 

Sono sulla cattedra/pulpito sulla quale convergono ad anfiteatro i banchi dell’aula magna. Osservo i ragazzi e le ragazze che rumorosamente prendono posto, vedo le gonne plissettate blu della divisa delle ragazze e noto che dalla loro solo apparente ma finta uniformità traspaiono invece evidenti indicatori  della loro uniforme e, questa volta vera, volontà di differenziarsi.

In particolare mi balza agli occhi il tentativo di alcune di loro di accorciare l’orlo della propria gonna, cercando di avvicinarsi il più possibile a quel cogente quanto indefinito limite che la frase “al di sotto del ginocchio” individua con una vaghezza superata solo dal legislatore italiano.

Al pari delle loro compagne, i ragazzi (i cui margini di discrezionalità sono ancora più compressi dalla evidente impossibilità di determinare l’altezza della gonna) cercano disperatamente di estrinsecare la loro personalità ricorrendo o a mocassini Prada dalla suola in gomma ed in cui il mitico marchio è stato provvidenzialmente colorato in rosso dalla casa (scelta dovuta non tanto dagli stilisti quanto bensì agli analisti dell’ufficio marketing) o ad appariscenti orologi da scegliersi obbligatoriamente tra alcuni limitati modelli della produzione Rolex (submariner o gmt) o Bulgari. Nel periodo estivo poi (che almeno a Roma si estende fortunatamente per loro a quasi 9 mesi l’anno) possono ricorrere all’utilizzo di occhiali da sole rigorosamente gucci modello mascherina

Mi presento sono Det è questa  è L, e sono qui per un motivo, darvi quello che avrei dovuto dare al mio amico OL, nonché vostro ex compagno e che per ragioni obbiettive non mi è più concesso: il buon esempio o meglio quello che per me è il buon esempio.

Le motivazioni che mi spingono a farlo non sono molto diverse, anzi sono assolutamente identiche, a quelle di tutti coloro che in questo mondo, cercano di dare insegnamenti agli altri: puro egoismo mescolato ad esibizionismo. Non c’è infatti niente di più gratificante di convincersi che quello che si sta facendo è per il bene comune, anche perché, se ci si convince di ciò, ci si sente conseguentemente ed automaticamente autorizzati a utilizzare qualsiasi mezzo per raggiungere un così elevato fine.

Premesso quindi che la mia posizione non si differenzia da quella di qualche prete rimbambito o similia che siete obbligati passivamente a sopportare, penso che sia giusto mettervi in guardia sul fatto che io, al contrario di tutti quelli che mi hanno preceduto o mi seguiranno, sono molto più pericoloso per voi.

Ma andiamo al dunque, io sono qui per vendervi un pacchetto vacanze (il mio modello di vita), un insieme di beni e servizi legati tra loro, è mio compito mostrarvelo e vendervelo al prezzo che io e solo io stabilirò, visto che nessun altro potrà fornirvelo.

 

Qui dentro, come nel mondo, ci sono alcuni di voi che hanno del potere e che lo utilizzano male.

Quando dico male non è tanto perché lo usano solo per danneggiare gli altri, questo dal loro punto di vista non è un male, ma perché, per quanto ne possano avere, non sarà mai assoluto e ci sarà un giorno che questo non sarà sufficiente a proteggerli  ed ad impedirgli di pagare tutto con gli interessi.

Voi ragazze ad esempio, vedo in voi tutti gli elementi per rendervi o delle perfette stronze o delle fighe pazzesche (e mentre formulavo questa seconda ipotesi il mio pensiero al pari del mio sguardo si era rivolto ad L). La differenza tra una perfetta stronza e una figa non sta nelle cose che fa ma nel modo in cui le fa e soprattutto perchè le fa.

Dovete vivere “nel giusto” e non essere stronze, questo non vuol dire che per non esserlo dovete necessariamente indossare orribili canovacci bianchi da cucina con bordo blu come fanno madre Teresa and company, si può essere “nel giusto” anche indossando un abito pazzesco disegnato da J Galliano e un paio di stilettos di Gucci, l’importante e che voi li usiate per fare impazzire di eccitazione chi provoca in voi un altrettanto magico e benefico stato confusionale e non per torturare uomini apparentemente potenti ma palesemente deboli o ancora peggio per ingenerare invidia in chi non è in grado economicamente o fisicamente di indossare quegli abiti.

Per essere fighe non bisogna mica per forza andare a messa tutte le mattine, mentre è invece indispensabile che all’alba, dopo aver passato una notte pazzesca nel club più cool della città, cerchiate di rientrare a casa di nascosto dalla portiera che si è svegliata già da due ore per pulire l’androne e che per quanto possa essere la persona più solare al mondo non è in grado di sopportare la scena di voi, che ancora in preda agli effluvi dell’alcol e del ritmo, dopo essere scese dalla porsche del vostro accompagnatore  a piedi nudi e con le scarpe in mano, tornate con nel volto e nell’andamento quella stanchezza rilassata di chi a passato la notte a divertirsi.

 

Non dico che dovete fare come me ed L che rientrando a casa la mattina dopo una notte brava, in preda ai sensi di colpa o:

-cerchiamo di far credere che ci siamo svegliati molto presto e dopo aver comprato il latte ed i giornali ci apprestiamo a tornare per fare colazione

-o provetti M.Jackson tentiamo la carta del passo moon walker, con il quale si indietreggia avanzando. (Mi preme sottolineare che l’idea di strisciare sotto il gabbiotto del portiere, più volte proposta da L, è stata da me scartata perché considerata lesiva della mia dignità).

 

Se volete bere un vodka lemon fatelo per gallegiare con chi vi piace e non per farvi piacere che vi “dovrebbe” piacere e se qualche stronzetto per impressionarvi vi invita a tirare della polvere bianca, rifiutatela almeno fino a quando non sarete voi in grado di metterla “in riga” e non viceversa  (il comportamento di quei granelli è assolutamente infido sembrano essere al vostro servizio allineati e coperti come file di soldatini mentre dietro quella loro apparente geometrica linearità – geometrico allineamento- e virginale candore si nasconde una forza in grado di comandarvi e rendervi schiavi – al pari di tante donne di cui non voglio fare i nomi-).

 

Se volete essere fighe dovete avere il coraggio di non nascondere i vostri limiti e la capacità di trasformarli in armi.

Quindi se vi trovaste, per caso, invitate nel miglior ristorante  giapponese di NY, innanzi ad un piatto di sushi, senza sapere né da  dove cominciare, né cosa farne di quei due pezzi di legno fornitevi come posate, e con di fronte qualcuno che vi ha portato lì non per condividere con voi le sue fortune ma all’unico scopo di impressionarvi e far venire a galla i vostri limiti o inadeguatezze,  per poter poi assumere atteggiamenti fintamente pigmalionici,  vi consiglio  di  fare quello che fece con me qualche hanno fa una mia amica brasiliana di nome Pam.

Pam  di fronte a quel quesito (come interagire con quegli strani pezzi di pesce crudo) non trovando nel proprio “bagaglio culturale” alcuna informazione a riguardo (i suoi genitori si erano sempre colpevolmente più concentrati nel procurargli il cibo piuttosto che insegnarli le modalità di come mangiarlo) avviò un processo razionalistintivo i cui passaggi trasparivano nitidamente dal suo sguardo, dai suoi occhi e dai suoi comportamenti.

Ricordo perfettamente come non appena le fu portato il piatto di sushi, il problema a cui doveva dare una risposta le si evidenziò. Il suo sguardo compì un rapido giro di orizzonte in cerca di un suggerimento, di una soluzione e mentre a quel rapido processo cognitivo stava per seguire in automatico una risposta istintivamente imitativa ( le sue mani afferrarono le bacchette) improvvisamente arrivò il contrordine:

i dati erano stati rielaborati dalla ragione che aveva escluso la possibilità di adeguarsi all’irrazionale comportamento dominante (uso delle bacchette) delle persone che la circondavano,  essendo, al tempo stesso, cosi incerta la funzionalità di quegli strumenti, come certo il fatto che la tecnica per poterli correttamente utilizzare non poteva essere acquisita in quel breve lasso di tempo.

Subito dopo il contrordine arrivò una nuova decisione che perveniva nuovamente dall’istinto, prendere quei bocconcini con le dita, decisione che trovava anche il consenso della ragione che a posteriori giustificava meglio il perché dell’inusuale straccetto caldo che pochi istanti prima era stato fornito per pulirsi le mani.

Ricordo ancora, ma ve ne prego non ditelo ad L, la devastante sensualità di quel modo di mangiare al tempo stesso così elegante e naturale, nonchè il colpo di grazia finale che mi fu inferto quando Pam mi  appoggiò in bocca quello dei suoi pezzetti di sushi a suo dire era il migliore.

Mi aveva fregato e dall’alto della limitata esperienza dei suoi 18 anni mi aveva dato, senza volerlo (ed è questo il bello),  una lezione di vita. Era lei che aveva il controllo su di me e non viceversa, controllo che le derivava dal fatto che la sua straordinaria bellezza era associata ad una linearità di pensiero ed ad una intelligenza variegata di curiosità non comuni.

 

Ma torniamo a noi, non fate gli stronzi/e, qualche volta vi concedo di poter fari gli stupidi/e ma mai gli stronzi/e. Sono qui per proporvi una sfida, un combattimento, intitolato “Ruba e Deridi”. Questi sono gli strumenti, tre telecamere digitali e tre pc con istallati programmi di montaggio e questo è il vostro obiettivo, realizzare, entro trenta giorni a partire da oggi, un filmato di 30 minuti dove evidenziare sia quello che di buono c’è (da rubare) nel Forte prenestino e nei suoi abitanti, sia quello che è assolutamente ridicolo e detestabile in essi (da deridere).

Tutto è lecito: potete palesarvi a loro così come filmarli di nascosto, potete cercare di comprarli così come di venderli, potete mitizzarli come mortificarli, ribadisco tutto vi è concesso, così come tutto è concesso a loro per raggiungere l’obiettivo speculare al vostro che prevede voi come prede.

Premio finale la  gloria nazionale: 30 minuti in prima fascia serale su di una rete K Television. Per qualsiasi dubbio o chiarimento potete chiamare questo numero che sarà attivo per 5 minuti alle 21 di tutti i giorni dispari, buon divertimento.

Prima ancora che il riverbero dell’ultima frase da me pronunciata fosse cessato sia io che L eravamo usciti dall’aula magna diretti a compiere la seconda parte della nostra missione quotidiana di spolette di innesco, obiettivo il Forte.

 

Comizio tribunizio 2

Ore  19 siamo davanti all’ingresso posteriore del Forte (ndr Forte prenestino, un centro sociale) faccio uno squillo sul cellulare di Matt e dopo pochi attimi arriva, in perfetta divisa da squatter, un ragazzo con le chiavi del lucchetto, che impedendo alla sbarra di alzarsi, limita il libero accesso al cortile interno.

Lui ci guarda, guarda la nostra macchina, guarda mentalmente il suo mondo e non capisce. Non capisce perché siamo lì e che cosa siamo venuti a fare, non capisce perché ci è stato concesso di entrare, mentre però la sua ideologia, le sue abitudini, le sue categorie fanno fatica ad inquadrarci lui finalmente ed inusualmente, divenuto per un attimo entità autonoma e indipendente, guarda la pagoda e come incantato, in balia di una tanto sincera quanto genuina ammirazione, ne rimane ammaliato.

Io entro lentamente e dopo averlo ringraziato gli chiedo dove dovevo parcheggiare: sempre dritto, nel cortile dove ti pare.

Non facciamo in tempo a scendere dalla macchina che veniamo raggiunti da Matt che dopo avermi salutato affettuosamente si presenta ad L con un “tu saresti la famosa L” frase che pur essendo divenuta un tormentone L sopportava con il sorriso negli occhi.

Seguitemi vi faccio strada, attraversare il ponte levatoio e percorrere la lunga galleria/corridoio che come una spina dorsale attraversa tutto il corpo centrale del forte e nella quale si affacciano con cadenza matematica stanzoni, corridoi e scale è sempre un esperienza esaltante. In particolare quello che suscita sempre l’emozione più forte è il devastante contrasto tra la struttura marziale del luogo e lo spirito anarchico che vi si respira e di cui le centinaia di graffiti che incrostano le pareti stratificandovisi sono solo un indicatore.

”Ci stanno aspettando” dice Matt, frase che ci trasmetteva contemporaneamente tensione: la fossa dei leoni è pronta a farvi a pezzi e protezione: Ci = ergo io sono con voi al vostro fianco.

Entriamo nella fossa/sala dell’assemblea, raggiungiamo il tavolo dove in fondo alla sala ci aspettavano i graduati rappresentanti e dopo alcuni tocchi sopra il microfono dati da Matt al fine di placare il rumoroso chiacchericcio  e chiedere attenzione, il microfono passa a me che posso così cominciare la mia rappresentazione:

“Immagino che vi stiate domandando chi sono e soprattutto che cosa sono. Chi sono ve lo posso dire io, sono Det,  ….. che cosa sono dovete deciderlo voi tra due alternative:

-un pariolino stronzetto figlio di papà che vive all’interno del sistema traendone vantaggi ma  che, ogni tanto, al fine di vincere la noia e di dare un senso alla propria vita, fa finta di fare qualcosa contro di esso (il sistema) ma per se stesso

-oppure un pariolino stronzetto figlio di papà che vive all’interno del sistema traendone vantaggi ma  che, ogni tanto, al fine di vincere la noia e di dare un senso alla propria vita, fa qualcosa contro di esso (sempre il sistema) ma per se stesso.

 

Ovviamente io spero di essere il secondo, ma adesso fatemi lavorare, fatemi fare il grillo parlante, fatemi  insinuare il dubbio anche in voi: state facendo qualcosa o fate solo finta? This is the question? Siete la spina nel fianco al sistema o solo una energia eversiva che il sistema fa defluire attraverso apposite e ben calibrate valvole di sfogo e trasforma in un’appariscente nuvola di vapore facendola accompagnare da un pittoresco irriverente fischio “di rivolta”.

Ma fatevi osservare, vediamo il grande bollitore cosa ha previsto nel vostro pacchetto “full inclusive” del vostro villaggio vacanze.

Innanzi tutto una bella divisa che come tutte le divise, ha un duplice scopo, farvi sentire fieramente diversi dagli altri e nel contempo rendervi facilmente individuabili, nei casi più disperati è previsto possiate ricorrere alla marchiatura con una bella serie di tatuaggi tribali, magari maori, evidenza e ricordo di radici che non avete.

Sulla divisa massima attenzione, anche qui la moda detta legge, vanno sempre bene anfibi e eskimo – capi basic magari non up to date ma sempre accettati – ma la parola d’ordine, quest’anno, sono morbidezza, consunzione e oversize (niente capi aderenti od attillati, ad eccezione della giacca della tuta nei modelli polisportiva parrocchiale, o per i più fortuanti patto di varsavia o finto adidas che va indossata come una seconda pelle un pò corta di maniche).

Banditi assolutamente gli orli ai pantaloni che devono essere lasciati liberi di strusciare per terra (per poter scaricare le correnti elettrostatiche così deleterie per l’organismo).

Anche per gli hobby e i passatempi massima rigidità: solo giocoleria da circo, quindi ben vengano clavette, bolas, nonché il classicissimo tommasino, anche lo skate è concesso.

Nel campo delle arti visive che non vi vengano in mente strane idee tipo dipingere un acquarello, solo spray o al massimo saldatore, e poi se proprio non avete nessuna attitudine o non sapete proprio fare niente, don’t worry acquistate una telecamere è diventate subito film makers creativi, categoria insieme a quella del dj o musicista di musica elettronica/sperimentale inflazionata come la valuta argentina.

Delle droghe solo roba naturale ma ogni tanto (tutte le volte che uno ne sente la necessità) anche qualcosa di sintetico non deve essere escluso a priori per non apparire troppo condizionati.

 

Bandiera arcobaleno sul davanzale della finestra e Grozny-oblivio ( del resto se uno non conosce certe parole – Grozny cos’è, un animale? – come può preoccuparsene) e siete subito ribelli.

 

Hei fermi, fatevi guardare!! ci deve essere un disturbo!! vi osservo da parecchio tempo e con attenzione e non vedo sull’angolo destro il logo Mtv vuol dire che siete falsi non originali o il contrario????

Ma torniamo al dunque: per poter mettere in scena la mia personale finzione contro il sistema ho bisogno di voi e vi devo convincere. Come vi ho già indirettamente premesso, il perché lo faccio è un elemento che deve essere per voi irrilevante, vi prego quindi, prima di eventualmente decidere di cacciarmi via perché troppo destabilizzante per i vostri rigidi equilibri, di valutare solo i vantaggi che vi possono derivare dalla mia proposta.

Sono qui per proporvi una sfida, un combattimento intitolato “Ruba e Deridi”: questi sono gli strumenti tre telecamere digitali e tre pc con istallati programmi di montaggio e questo è il vostro obiettivo: realizzare entro trenta giorni a partire da oggi un filmato di 30 minuti dove evidenziare sia quello che di buono c’è (da rubare) nei pariolini figli di papà, quintessenza del sistema borghese che frequentano l’istituto San Vattelapesca, sia quello che è assolutamente ridicolo e detestabile in essi (da deridere).

Tutto è lecito: potete palesarvi a loro così come filmarli di nascosto, potete cercare di comprarli così come di venderli, potete mitizzarli come mortificarli ribadisco tutto vi è concesso, così come tutto è concesso a loro per raggiungere l’obiettivo speculare al vostro che prevede voi come prede.

Premio finale la  gloria nazionale: 30 minuti in prima fascia serale su di una rete Rai. Per qualsiasi dubbio o chiarimento potete chiamare questo numero che sarà attivo per 5 minuti alle 21 di tutti i giorni dispari, buon divertimento.

 

Appunti di sceneggiatura per défilée

Quando, a pag. 17, vi ho detto che una delle fonti di reddito del gruppo è la vendita di sceneggiature per la Nato sono stato impreciso. La fonte principale dei nostri introiti è sì la Nato, tenuto conto delle parcelle da essa pagate, ma in realtà noi siamo delle puttane e scriviamo/ideiamo per chiunque sia disposto a pagarci e tanto. Ecco un esempio di una delle nostre sceneggiature:

……..Tutto era pronto per l’inizio della sfilata, gli addetti non fanno però in tempo a togliere  il cellophane protettivo che ricopriva la passerella, che un goffo e pingue fotografo la attraversa per raggiungere il suo posto, lasciando, sulla candida moquette panna, delle evidenti impronte grigio polvere così nette da sembrare essere state stampate.

A quel punto Già, “lo stilista” seduto in prima fila accanto a madame Chirac, scatta come una molla rompendo quel silenzioso brusio che precede l’inizio di ogni sfilata: “Hei tu cosa ca…zo  fai non vedi cosa …. hai fatto” il fotografo intimidito accenna un gesto di scuse interrotto dalla repentina sensazione/considerazione che sarebbe stato meglio, anziché concluderlo, raggiungere velocemente i colleghi e confondersi tra di essi.

Già continuando a inveire aveva raggiunto il luogo del delitto e balzato sopra la passerella cercava con dei calci nervosi di eliminare le impronte, ma di un tratto si ferma  e diretto verso il back stage rompe il questa volta totale e annichilito silenzio della sala con un: “qualcuno là dentro venga a pulire!!”. Passano pochi attimi, che la tensione/situazione sembrava aver trasformato in ore, e non ricevendo risposta  reitera la domanda che non sortendo di nuovo alcun effetto si trasforma in un urlato “Milla muovi il culo vieni fuori,  vieni a pulire”.

I riflettori si accendono e all’ingresso della passarella appare Milla Jovovich che, indossando un abito verde acido modello i pronipoti, spinge un aspirapolvere hoover anni 70 più cromato di una harley, lasciandosi dietro il filo della corrente il cui colore rosso contrastando con il bianco panna della moquette sembrava disegnare la riga iniziale di un disegno  Kandisky o Mondrian.

 

A quel punto nel  soffio/rombo dell’aspirapolvere amplificato dall’impianto audio si era inserita una ritmica electropop e anche il meno smart di quella selezionata platea aveva capito di assistere ad una messinscena, uno show, “the show”.

 

Milla stacca le mani dalla aspirapolvere, che continua ad avanzare dritta lungo la passerella, si gira,  tira fuori il cartoncino numerato tipico delle mannequin anni 70 e si avvia verso l’ingresso della passarella seguendo la sottile linea rossa lasciata dall’aspirapolvere  mentre una voce femminile fuori campo descrive  in un francese riverberato dagli effetti le caratteristiche del vestito.

Milla e l’aspirapolvere sembravano due duellanti che partiti schiena contro schiena si allontanano lentamente ma inesorabilmente per poi girarsi e spararsi

La tensione sale, l’attenzione di tutti è focalizzata non tanto su Milla e il suo abito da novella cyber Irma la dolce modello 2003 ma piuttosto su quello che sarebbe accaduto a lei l’aspirapolvere (ormai la star ) visto che procedeva inesorabilmente dritta verso il baratro (la fine della passerella).

Tensione che svanì quando lei (l’aspirapolvere) in contemporanea con Milla che si trovava al capo opposto  e con la medesima eleganza si  girò su se stessa e si riavviò verso l’ingresso procedendo verso la collega (Milla) ed incrociandola a metà passerella.

 

Matrimonio

Chi ha detto che organizzare un ricevimento matrimoniale è difficile, dice una falsita’.

La cosa importante è che decida una persona sola, quella che in materia ha le idee più chiare.

Su questo principio si basa il mio rapporto con L (e con tutti quelli che sento naturalmente più vicini).

Ritengo anzi che una delle prove della solidità del nostro rapporto (e del carattere di ciascuno di noi due) sia proprio data dal fatto che può capitare che decisioni che incidono su entrambi siano prese da uno solo.

La suddivisione delle competenze è automatica, naturale, necessaria, il far sempre ricorso a un metodo decisionale ostentatamente collegiale sarebbe non solo forzato, innaturale e illogico ma anche indicatore di una fragilità del rapporto.

Se sono in macchina con mia nonna e buco un pneumatico è ovvio che sia io a scendere a cambiare la ruota senza la finta democratica necessità di accordarmi con lei. Lo stesso (mutatis mutandi) può avvenire per altre circostanze, come nel caso in oggetto della organizzazione del matrimonio. Devo però ammettere che il fatto che io abbia preteso di decidere anche il vestito di L è stato un pò una forzatura.

 

L’organizzazione del matrimonio è stata basata sul principio che questo doveva essere un enorme show, un reality show: la fusione delle due diverse galassie a cui io ed L apparteniamo, ogni invitato/pianeta partiva come attore/spettatore ( attore nel momento in cui rappresentava la propria arte/essenza e spettatore nel momento in cui osservava/percepiva quella degli altri)  al fine poi di perdersi in un immensa rappresentazione collettiva, fondendo, in un magma creativo, la propria individualità con quella degli altri.

Per questo a ciascun invitato è stato chiesto, come regalo, di fare semplicemente la propria parte manifestando la propria arte: chi è stilista ha disegnato gli abiti, chi è sarto li ha realizzati, chi è cuoco ha cucinato, chi è tecnico del suono ha sonorizzato la sala,  chi è avvocato non ha fatto niente (non è questo quello che fanno generalmente gli avvocati??)

 

Il vestito

Il vestito da sposa l’ho disegnato nella mia mente molto tempo prima di conoscere materialmente L. Questo, al contrario di quanto voi stoltamente possiate pensare, lo rende ancora più perfetto.

È realizzato in tre diversi materiali: lattice, tessuto di metallo e seta, tre elementi che ben rappresentano il carattere di L.

In questo vestito il punto vita costituisce quello che in una prospettiva borrominiana è il punto di fuga dove ogni linea converge. Volutamente, infatti, il corpetto è disegnato in maniera tale da evidenziare quella parte della schiena, che io adoro stringere quando le sono vicino, che si allarga subito sopra la linea di vita e la cui tonica plasticità rappresenta all’unisono sia la bellezza che il carattere di L (nonché le migliaia di vasche fatte nella piscina olimpica di Berlino).

 

A proposito di abito da sposa, quando  Già (e cioè lo stilista che attualmente viene considerato il n.1 al mondo , specie da quando ha sostituito John Galliano da Dior )  ha saputo del matrimonio mi ha immediatamente chiamato (erano le 4 del mattino) offrendosi, in nome della nostra vecchia amicizia, di disegnare l’abito da sposa, ricevendo un diniego e al tempo stesso una richiesta: disegna dei vestiti ma non per L.

Ma per chi, vi chiederete? Semplice per chi mi nutre amorevolmente da diversi anni, mia madre?… no troppo scontato….le signore della mensa della Television K.

 

La cena/ricevimento

E’ un piacere vederle allineate dietro il bancone in cristallo e acciaio, tutte fiere dei loro vestiti di alta moda che Già ha disegnato appositamente per loro, pronte a servire la cena self service del mio matrimonio.

Una cena self service! che stranezza, ma che cosa originale e carina (certo è strano come la stessa cosa possa essere considerata chic o cheap solo in base allo status sociale di chi l’ha organizzata: se la fa chi è potenzialmente in grado di permettersi ben altro è chic, se la fa chi non ha altre alternative è cheap).

Ho deciso di organizzare la cena del mio matrimonio all’interno della mensa dell’azienda per cui lavoro al fine di contemperare diverse esigenze: soddisfare un mio desiderio, risparmiare e far sì che dall’evento potessero trarre vantaggio tante persone per un tempo che potesse essere il più esteso possibile.

Tutto è stato facile: per ottenere l’uso della mensa per una sera è bastato abusare del mio potere, mentre per sopire la coscienza dal senso di colpa generato da tale comportamento vessatorio è stato sufficiente autoconvincermi di essere una sorta di mecenate, visto che gli abbellimenti da me apportati al luogo sarebbero stati goduti/fruiti, oltre che dagli invitati, anche dai miei colleghi nel futuro e per di più per sempre!!!.

 

Il salone della cena (la mensa) è un enorme ambiente di circa 300 mq che in uno dei lati corti vede un lungo bancone dove sono esposte le varie pietanze. Nei giorni lavorativi, il dipendente prende il suo vassoio indica alle gentili signore di cui sopra cosa desidera  e in meno di un baleno gli verrà offerto ciò che desidera mangiare in una quantità che varia sulla base della simpatia o delle esigenze nutritive che appare avere. E’ ovvio infatti che la dose di carbonara data ad un massiccio operaio in tuta è quasi doppia rispetto a quella della segretaria di redazione in perenne lotta con la taglia auto assegnatasi (ndr la mia dose di carbonara è sempre andata ben al di là di quella prevista per la categoria stronzetto in giacca e cravatta alla quale appartengo da ciò il mio amore per le signore della mensa). In uno dei lati lunghi vi è invece un lunghissimo tapis roulant sopra il quale una volta terminato il pasto vi si appoggiano i vassoi sporchi.

 

Per l’occasione i vassoi in plastica bianca con impresso il logo K Television sono stati sostituiti con altri in finto teak opaco stampati da un mio amico miliardario portoghese che produce contenitori in plastica per alimenti, sostituzione che ha riguardato anche i bicchieri ormai resi opachi dai continui lavaggi e micrograffi ed il cui posto è stato preso  dalla dignitosa serie loto della Bormioli (li stessi che io ho in casa) forniti gratis dalla ditta stessa in cambio di questa semplice citazione.

Per quanto riguarda l’illuminazione mi sono limitato a sostituire le originarie lampade neon incassate al soffitto con altre dalla tonalità più calda, (è toccato a me ed ad Aldo cambiare ben 40 lampade) mentre sul pavimento di lineolum verde è stata sovrapposta, solo per la serata, una morbida moquette cognac al fine di permette (come indicato nell’allegato esplicativo all’invito), a tutti gli ospiti che l’avessero desiderato, di camminare senza scarpe (a tal fine era stato anche previsto un servizio guardaroba ad hoc).

Tutte le pareti sono state rinfrescate con una tinta latte e sono stati predisposti proiettori al fine di potervi proiettare immagini e filmati vari.

 

Chiesa barocca e discorso

Ok, facciamo un passo indietro e torniamo in chiesa, nella chiesa del Gesù che è stata scelta (è stata scelta è più elegante che dire ho scelto, siete d’accordo?):

-per la sua opulenza barocca, i suoi marmi, l’oro sbalzato dei suoi bassorilievi,  i suoi lapislazzuli blu, i giochi di prospettiva delle figure e delle nuvole che ricoprono la volta principale, insomma per la sua ricchezza la cui naturalmente consequenziale  ostentazione si ferma, come per miracolo, in limine alla volgarità (un attimo prima di diventare volgare);

-perché è praticamente attaccata a palazzo (del quale si poteva così sfruttare l’enorme cortile quale parcheggio custodito);

-per voluto contrasto con il luogo scelto per la cena/ricevimento la cui estetica minimalista- funzionale, si trova in  perfetta antitesi con l’opulenza barocca della chiesa del Gesù.

 

Tutto era pronto, i fiori e gli ospiti erano ai loro posti e l’amico  Kiz, nella sua duplice veste di organista/chirichetto aspettava…. organista_chirichetto che!! direte giustamente voi, e sì avete ragione è necessario interrompere la cerimonia (pardon la narrazione della cerimonia) e aprire una piccola parentesi esplicativa su Kiz  e con l’occasione su altri due personaggi fondamentali della cerimonia, l’officiante e il testimone, ma cominciamo da Kiz

 

Organista/chirichetto

Kiz è un socio del club Mercedes  che ho avuto modo di conoscere per la prima volta durante il consueto raduno natalizio. Tre cose mi hanno colpito di lui quella volta: la sua maestria nel servire messa, again la sua maestria nel suonare il pianoforte e la sua magrezza accentuata dall’attillato  maglione nero a collo alto che indossava.

L’occasione per vederlo nei panni di chirichetto/pianista è stato proprio il raduno mercedes di cui vi ho accennato sopra durante il quale, come è ormai tradizione, viene celebrata una messa con successiva cena di gala in onore di un nostro amico nonché motore primario del club, scomparso prematuramente.

Durante la messa la sua gestualità, la misura e l’eleganza dei suoi movimenti, trasformavano il suo ruolo secondario e da gregario della scena liturgica in quello del protagonista principale; in quel momento era lui il grande ufficiale dei servitori della divinità, il gran ciambellano del rito, i suoi movimenti mi ricordavano in maniera inequivocabile quelli dei ballerini di voguing (modo di ballare di gran moda a NY negli anni novanta basato sulla iperrealista imitazione delle pose assunte dalle modelle e del loro modo di muoversi sulla passarella). I suoi gesti, infatti, erano come nel voguing, volutamente stressati, ipersaturi, teatralmente accentuati, iperostentati. Vi era in lui una chiara volontà di ostentazione straconfermata dal finto distacco fortemente e volutamente mostrato e quindi, per converso,  prova evidente e inconfutabile della sua non esistenza .

Durante la cena di gala, durante la quale si è esibito al piano, sono rimasto colpito dal suo modo di suonare ed in particolare dai movimenti delle sue braccia, delle sue mani, delle sue dita che pur lasciando trasparire una impostazione e disciplina derivanti da un infinito esercizio sembravano per converso essere dovuti ad una misteriosa forza che nel possedergli li conduceva come magicamente a trovare le note, i tasti, il ritmo. Quindi abile e arruolato

 

L’officiante

Sulla scelta dell’officiante sono stato a lungo in ambasce: meglio un prelato totalmente privo di personalità, facilmente plasmabile e che quindi avrebbe accettato di essere mera voce di un sermone totalmente scritto da me o uno di una certa personalità e prestigio e quindi più difficilmente influenzabile che avrebbe “preteso” di fare a modo suo.

Alla fine ho scelto la seconda ipotesi, ma la ragione di tale scelta non è stato, come voi benevolmente potreste forse pensare, il convincimento che è  sempre meglio avere intorno a sé, piuttosto che adulatori ossequiosi, personalità forti anche a rischio di essere messi in discussione o (ancora peggio!!!!!) di non essere assecondati, ..tutt’altro, la ragione è stata il puro esibizionismo: ho preferito un cardinale, il card Saturn per la cronaca, che con il suo prestigio, i suoi paramenti rossi, il suo bell’anello e soprattutto con il suo potere, faceva più fico!!!!

Del resto ottenerlo non è stato difficile visto la mia fraterna amicizia con Cla che ne è il nipote prediletto (quello per il quale se volesse cedere alla tentazione, potrebbe fare atti di nepotismo), senza parlare poi della possibilità di farselo assegnare di ufficio direttamente dal “capo” visti i legami che legano la famiglia di L con KW.

Comunque, sia chiaro, io il sermone sono riuscito ad “influenzarlo” lo stesso.

 

Il testimone

Come uno dei miei testimoni ho scelto Sly, incarico che gli ho assegnato molto prima di aver incontrato la stessa L. Le ragioni che mi hanno indotto a sceglierlo sono essenzialmente tre:

1)        non c’è nessuno in grado di fare un discorso ad un matrimonio meglio di lui ed essere profondo e brillante al tempo stesso, un vero professionista!!! (passata alla storia è la sua intenzione, dove veniva augurato ai novelli sposi di mantenere sempre nel tempo una tensione verso il non vissuto)

2) è fotogenico e quindi appare bene nelle foto di rito

3) è uno delle poche persone al mondo che essendo dotato di libertà di pensiero, intelligenza, metodo, logica, coerenza, onestà intellettuale e morale, è in grado di comprendere me ed il mio pensiero fino in fondo. (sto facendo una sviolinata a lui, a me o a tutti e due contemporaneamente???).

 

Ma ripartiamo da dove ci eravamo interrotti: Tutto era pronto, i fiori e gli ospiti erano ai loro posti e Kiz, nella sua duplice veste di organista/chirichetto aspettava l’arrivo di L per iniziare a suonare il repertorio concordato (con attacco di “promise land”’ di J Smooth).

Io osservavo la scena come non ne fossi parte in causa ma bensì un semplice osservatore esterno,….  “Hey Sly, scommetto una cena, e lei Cardinale ne è testimone oltre che invitato, che  herr von Riben e la figlia arriveranno da bravi crucchi entro un minuto rispetto all’orario previsto”. Non feci in tempo a sentire l’ok ci sto di Sly che accettava la scommessa che  L ed il padre stavano varcando l’ingresso della chiesa. “Penso  che hai perso la scommessa” bofonchiò serafico il Cardinale Saturn “quei due sono addirittura in anticipo, sono le 6 meno due minuti, a quando la cena?? “

Il modo di avanzare di L e del padre lungo la guida che conduceva all’altare fu assolutamente divertente.

Lu, con lo sguardo serio e un andatura lenta e circospetta,  sembrava essere uno di quei personaggi che nei film di spie ambientati nella Berlino della guerra fredda deve effettuare uno scambio di prigionieri e ne accompagna uno al punto di incontro prestabilito che si trova per tradizione nel mezzo nella terra di nessuno che divide le due frontiere (generalmente un ponte)

Lei invece irradiava gioia e contentezza ……  mi spiace ma la descrizione del matrimonio termina qua perché mi sono stufato anche questa volta, voglio però descrivere un ultimo particolare, al posto del tradizionale riso all’uscita della chiesa siamo stati bersagliati da migliaia di piccole striscioline di straluccicante alluminio rubate da Pete alla RAF e che le utilizza nella guerra elettronica per confondere i radar del nemico.

 

Il Viaggio/Luna di miele

il nostro viaggio di Nozze altrimenti definito : 

………..viaggio Tribù verso Kabul……

 Il fatto che sia io che L recitiamo la parte degli anticonvenzionali non ci impedisce di seguire le tradizioni che in quanto appartenenti e forse massimi rappresentanti della categoria “borghesi che più borghesi non si può”  sentiamo naturalmente nostre e quindi vogliamo fermamente rispettare, l’unica avvertenza che seguiamo è quella di mimetizzarle da qualcosa altro trasformandole in eventi epici, questo è quello che abbiamo fatto con la nostra luna di miele:

 

Partenza viaggio

Ormai tutto era quasi pronto per la partenza avevo appena terminato il cambio dell’olio e dei filtri e rabboccato il livello del lavavetro con acqua mescolata ad un apposito liquido profumato preparato da L (o meglio distillato da L con il suo famoso alambicco) e da essa denominato Union of fragrances

( il nome dato da L a tale liquido e il fatto di utilizzarlo al posto dei normali detergenti è un indicatore evidente della mentalità istintivoparanoicorazionalista  che caratterizza L e purtroppo anche me: l’idea di prepararlo è scattata immediata nella mente di L dopo aver visto uno spot della Audi, la decisione di utilizzarlo è stata presa dopo uno dei nostri tradizionali schizzocontradditorii:

1)        mi piace

2)         è un piacere indotto dal sistema (addirittura la scopiazziatura di uno spot)

3)         non utilizzarlo per dimostrare di non essere condizionati vorrebbe dire di essere ancora più condizionati

4)        mi piace quindi l’utilizzo ma ne sono conscio.

Qualche volta, nei momenti di debolezza,  la dimostrazione di esserne consci viene data esplicitamente e specificatamente anche agli altri (nel caso di specie tale dimostrazione è dovuta non a debolezza ma un vezzo, anzi è un vezzo nel vezzo: fornisco la fonte della mia ispirazione ma lo faccio in maniera esoterica – Auto Union era il vecchio nome dell’Audi-)

 

rimaneva solo da effettuare lo stivaggio di tutta l’attrezzatura nella macchina – cosa che per uno che ha sempre ritenuto prova oggettiva  della sua superiorità (una sorta di IQ test) il fatto di riuscire a caricare una lavapiatti con un quantitativo di pentole e stoviglie del 30% superiore alla media dei normali utilizzatori (nella media  non sono ovviamente calcolate le casalinghe di Voghera, che in ragione delle loro doti di eccellenza in questo campo, falserebbero il campione statistico) era vista come un opportunità per dimostrare ancora una volta al mondo intero le mie capacità e il mio eroismo nel contrappormi alle leggi della natura (nel caso di specie la legge dell’incomprimibilità dei corpi, Io vs Materia)

 

Prima di darvi accurata descrizione delle cose trasportate (G & L, attrezzatura e vestiario) ritengo però più giusto darvi alcune informazioni sul mezzo di trasporto di cui vi ho già incidentalmente parlato in un episodio precedente:

Mercedes 280 sl anno 1969   meglio conosciuta come  “pagoda” (l’origine di questo nome deriva dalla caratteristica forma del tetto rigido che richiama quello di una pagoda giapponese) di colore oro metallizzato e che io possiedo non solo perché ne sono il legittimo proprietario (titolo che per le persone che avrete modo di conoscere non mi attribuirebbe alcun particolare diritto su di essa)  ma soprattutto perché ne possiedo lo spirito (questa affermazione – che riconosco suonerebbe meglio in bocca di un grande capo indiano o al limite di una lettrice di insulsi libri sulla new age –  trova conferma e  al tempo stesso spiega la naturalezza con la quale mi viene spontaneo smontare e rimontare ogni sua parte).

La macchina è originale in ogni sua parte (ciò è confermato più che dalla targa oro rilasciata dall’ASI e dal giudizio dell’amico Valerio) le uniche aggiunte apportate (tutte perfettamente reversibili e quindi approvate dal suindicato Valerio) sono:

-autoradio/navigatore satellitare con lettore cd nascosta nel cassettino anteriore (il fatto che quando il gruppo si sposta noi svolgiamo la funzione di capocolonna deriva essenzialmente dal nostro smisurato esibizionismo ma trova giustificazione nel fatto che disponendo del navigatore dovremmo sapere dove stiamo andando)

collegato a due amplificatori uno per la coppia di mini casse autocostruite (vedi schemi allegati) e l’altro per il subwoofer; detto impianto è ovviamente collegabile qualsiasi fonte audio (ad es, il pc di L) ed è collegato ad un piccolo trasmettitore radio (di cui vi parlerò)

-lampadine allo Xenon nei fari anteriori

-paracoppa in alluminio

-tubo in rame avvolto intorno alla marmitta utilizzato sia per distillare (alambicco di L) che per disporre di acqua calda per la doccia

-frangivento posteriore

 

Passo a descrivere l’attrezzatura trasportata

2 Pc Sony Vaio con dvd e masterizzatore scheda di acquisizione video e cam di decodifica (grazie ad essi siamo in grado creare musica, montare video, ascoltare qualsiasi tipo di file audio vedere qualsiasi tipo di file video

due telecamere Sony (una PC 100 e una……)

-un mixer audio…..

-un mixer video

-un videoproiettore …modificato per essere alimentato anche a 12 volt

-antenna parabolica ad ombrello con ricevitore e modem dedicato

-due mizar

-un trapano avvitatore  cordless acquistato in un ipermercato del nord Italia per 50 mila lire

-un mini compressore

-set completo di chiavi e cacciaviti beta

-saldatore stagno 12 volts

-due matasse da 30 metri di cavo tripolare da 2,5 e

-bulloneria, spine e viti

-tre piatti piani e tre fondi rubati da L in cene di gala alle quali è stata costretta dal padre ad accompagnarlo (una sorta di vendetta contro il sistema)

-set completo di posate d’argento per due persone appartenenti alla madre di L e facenti parte di un servizio completo regalato dalla famiglia imperiale ai bisnonni di L presi con l’impegno solenne assunto da entrambi di riportarli indietro.

-enorme paiolo in alluminio per cuocere la pasta/ lavare i panni /contenere la ruota di scorta.

 

Prima di continuare nella descrizione dell’attrezzatura devo sottolineare una caratteristica di tutte le cose trasportate dal mercedes: ognuna deve essere multifunzionale: L è in grado sia di dare bacetti che di attaccare bottoni, i PC  di suonare MP3 e di montare immagini, l’alambicco sia di distillare che di scaldare acqua per la doccia, insomma ogni oggetto o persona ha il dovere prima di tutto nei confronti di se stessa di fare (e per di più bene) più cose onorando i talenti ricevuti.

-un coltello giapponese in ceramica bianca e un coltello da pane in acciaio svedese Ikea

-due padelle antiaderenti con manici ripiegabili

-un Victorinox mod. techno, un Latherman, una mini mag lite e una mag lite media

-un piccolo frigo/scaldavivande 12 volts

-una tenda a igloo

-due sacchi a pelo

-un materasso matrimoniale gonfiabile

 

E adesso il mio guardaroba cominciando dal basso:

un paio di anfibi reebook

-un paio di nocassini di gucci neri con suola di gomma

-un paio di stivaletti D.Martin

-un paio di curch stringate nere

-un paio di stan smith modificate nere

-un paio di ciabatte da doccia speedo

-un paio di scarpe da surf nike

-quattro paia di calze di lana grigio scurissimo, sei di cotone di cui due di spugna

-una calzamaglia di lana

-10 paia di mutande di Schostal

-2 pantaloni da combattimento (uno grigio l’altro oliva)

-due pantaloni di prada blu +grigio scuri estivi e due invernali

-un vestito grigio fatto dal mio sarto John Tinelli

-uno smoking completo

-due camice classiche una azzurra e una bianca

-due cravatte di gucci di cui una originale anni 60

-un paio di bretelle nere

-otto polo di filo di cui quattro a manica corta

-dieci t shirt

-un maglione di cachemere pesante e uno leggero

-due pile e due cardigan di lana con cerniera (blu e grigio scuro)

-un piumino grigio scurissimo e un cappotto di prada

-un cappello di pile con paraorecchie

-un paio guanti doppi con pile

-orologio g-shock e IWC

 

guardaroba di L

-sandali neri con tacco alto Manolo Blanik

-sandali grigio/argento con tacco alto Anna Sui

-scarpe nere decoltee con tacco alto Sergio Rossi

-un paio di anfibi.

-un paio di stivali neri con suola in caucciu’

-un paio di mocassini testa di moro

-due calzamaglie nere di lana

-numero indefinito tra collant, autoreggenti e francesine

-numero indefinito di ‘’elementi’’ di biancheria intima (da Cagi a Agent Provocateur)

-costume ‘’olimpionico’’ speedo

-due bikini

-un paio di jeans neri

-2 pantaloni da combattimento (uno grigio l’altro nero)

-vestito da sera di gucci

-tailleur gessato di valentino

-gonna a portafoglio e kilt

-gonna salopette in lana cotta grigia

-numero indefinito di t-shirt dai colori indefiniti

-due ‘lupetti’di cachemir

-due pile e due cardigan di lana con cerniera (blu e grigio scuro)

-maglione lana grossa fatto con i ferri L hand made

-una field jacket usa

-cappello mod. ‘’giovane marmotta’’

– cappotto sartoriale nero

-un paio di guanti doppi con pile

-un Patek Philippe twenty 4 e un Breitling flight

 

Cortile/Suk palazzo Altieri

Tutti gli oggetti descritti nelle pagine precedenti erano sparpagliati intorno alla macchina nel cortile principale di palazzo Altieri pronti per essere caricati.

La scena ricordava molto da vicino il mercato delle pulci che si tiene tutte le domeniche mattine nella piazza jeux de balle di Bruxelles, dove i diversi venditori esponendo la loro merce su teli stesi sul terreno, obbligano gli avventori a gimkane forzate intorno a oggetti tra i più disparati (dal binocolo di fabbricazione russa ad un set completo di bicchieri ormai ingialliti dal tempo con impresso il logo della Pernod).

Lo stesso accadeva nel cortile dove sopra una pila di T-shirt colorate di L (o sarebbe meglio dire decolorate visto il processo di annodatura e immersione in varichina che molte di esse avevano subito –tecnica che L aveva imparato al Forte Prenestino da Lesa) era possibile trovare una scatola da sei di candele per auto della Bosch a sua volta parzialmente coperta dal boa di piume di struzzo rosa di L (ultimo regalo che le aveva fatto Eddy  prima che se ne perdessero le tracce).

Erano ormai le 9 quando, come tutte le mattine, entra la K del Direttore generale dell’ABI, si ferma in prossimità dell’ingresso, si apre lo sportello e scende il dottor Sand che ancora immerso nella lettura si ritrova improvvisamente nel mezzo di quel Suk arabo impiantato da Me ed L, non fa in tempo a sostituire gli occhiali da lettura ed a mettere a fuoco la scena che già il suo sguardo lascia trasparire in maniera inequivocabile il suo pensiero: cosa stanno combinando questa volta quei due (un “quei due” che racchiudeva contemporaneamente la sua distanza e la sua istintiva simpatia per noi ed in particolare per L per la quale aveva una vera e propria passione) pensiero a cui seguì immediatamente una domanda posta in un perfetto tedesco (Z è nato in Trentino e quindi è in grado di parlare un perfetto tedesco) direttamente a fraulhein Helena (L) “Was machen Sie jetz” (cosa state facendo)…….. stiamo per partire per Kabul in viaggio di nozze.

 

Fine

Sì finisce tutto così d’improvviso come è cominciato (come la vita del resto), questo però non vuol dire che non vi potrà essere un seguito (come dopo la vita del resto), del quale il prossimo racconto (la Bonus Track) potrebbe essere parte.

 

Bonus track

 

Fettuccine

La cosa che più di ogni altra attribuisce il rispetto, la stima e direi addirittura la deferenza del gruppo nei confronti di L è il suo scettro “imperiale” chiamato Katiuscia che altro non è che un semplice tubo di acciaio di 5 cm di diametro lungo 50 cm utilizzato principalmente in due modi: come tubo lanciarazzi per fuochi d’artificio e bengala (Katiuscia, come tutti saprete, era infatti il nome dato dai soldati dell’armata rossa ai loro lanciamissili) e come mattarello per stendere la pasta all’uovo per le fettuccine  che ogni tanto L prepara per tutta la tribù.

 

E’ mattina inoltrata ed L e Kitta dopo aver fissato solidamente al terreno attraverso due cavalletti una tavolaccia di legno massiccio si apprestano a preparare le fettucine aiutate dal piccolo Valeri (il figlio di Kitta, ricordate?) che è già riuscito, non si sa come, a trasformarsi in una nuvola bianca di farina.

La scena fa quasi tenerezza:  Kitta  impasta le uova e la farina, L tira e taglia la pasta (utilizzando un magnifico spadino da gran gala da ufficiale della wermacht con manico in madreperla bianco e fregi in oro), Valeri  cerca di raccogliere con le sue piccole mani la farina per poterla cospargere sulla pasta già stesa.

Tenerezza che viene accentuata dal pensiero che in quel momento vite e destini così diversi sono così vicini, in particolare mi colpisce la condizione di tranquillità e pace che Kitta sembra aver finalmente raggiunto così distante da quella che ha caratterizzato gran parte della sua esistenza.

Sono ormai le dieci e tutto è pronto: le  fettuccine allineate sopra il tavolaccio e coperte da canovacci di ruvido cotone bianco ricordano le sapienti fintorurali pubblicità del mulino bianco (tipico esempio di ricordo non di una tradizione, ma di qualche cosa che la ricordava e che per un’altra generazione diventa essa stessa qualcosa di tradizionale).

Il bruciatore da campo acceso diffonde tutto intorno un azzurra luminosità siderale e l’immenso paiolo, dal cui coperchio si innalzano irregolarmente sbuffi di vapore, sembra un disco volante che anziché essere partito da marte arriva direttamente dalle colline emiliane. Il gioco dei contrasti viene accentuato dal suono di litanie mediorientali che provengono dal camion di Lu e Era : litanie che tutti noi bene o male accettiamo consci del fatto che se il viaggio per raggiungere Kabul è stato organizzato, lo si deve in larga parte a loro e alle loro “entrature” con il governo afghano.

 

Conoscere le regole del mangiare in comune fà capire la filosofia e lo spirito della tribù:

Le cene o i pranzi in comune vengono organizzate in maniera random  nel senso che non vi è alcun accordo o turnazione che garantisca almeno una volta al giorno un pasto caldo – ognunodeve essere assolutamente autosufficiente – ma quando e se vuole può decidere di cucinare per tutti e in questo caso informa la comunità 24 ore prima, issando sull’antenna del proprio mezzo un’apposita bandiera con forchette incrociate (rubata da Jim in un autogrill vicino a Baden Baden) e esponendo una tabella con le indicazione degli aiuti che ha necessità di avere (es 40 uova, legna da ardere……., qualcuno che impasti, funghi porcini – ho detto porcini niente magie…) A disposizione di tutti vi sono alcune attrezzature comuni contenute in un’enorme cassa in alluminio (del tipo di quelle usate negli aerei cargo dell’Alitalia – anzi più che del tipo proprio quelle usate dalla nostra compagnia di bandiera) bruciatore, paioli, cavalletti ecc.

 

Quando il cibo è pronto ci si dispone in circolo intorno al bruciatore  ognuno con il proprio tappeto, stuoia, telo mimetico (Io ed L utilizziamo un comodissimo tappeto persiano, o presunto tale, comprato sulla spiaggia di Ostia da un marocchino di nome Kalef – ditta seria-) creando una sorta di esoterico cerchio concentrico……..

 

Note:

[1] La mercedes 300 sl chiamata così per via degli sportelli che aprendosi verso l’alto ricordano le ali di un gabbiano.

[2] Miscela di cemento spalmata dai carristi tedeschi sulle lamiere dei loro “panzer” per impedire alle mine magnetiche di attaccarvisi.

[3] Cosa è questo.

[4] Ogni persona ha un cervello che genera idee.

Queste idee esistono per il mondo esterno solo nel momento in cui le si materializza e ciò può avvenire in diversi modi, esempio utilizzando la parola, la scrittura, la fotografia, la pittura, la cucina.

La diffusione di queste idee materializzate poi può avvenire con diversi mezzi che variano anche in relazione allo strumento che si è scelto per materializzarle, ad esempio se si è scelto la parola il mezzo può essere il telefono, il megafono, la radio se si è scelta la cucina può essere il cameriere che serve in tavola il piatto cucinato, come il fattorino che consegna la pizza a domicilio.

Tutte le idee che una volta materializzate possono essere trasformate/tradotte in un segnale digitale (quando addirittura non  sono materializzate direttamente in tale formato) hanno, ai giorni nostri uno strumento di diffusione molto efficace come le reti di comunicazione, che svolgono nel globo la funzione svolta dal sistema nervoso nel nostro corpo. Proprio per favorire la circolazione del segnale/idee sia all’interno del palazzo che all’esterno si è deciso che il primo ad entrare dovesse essere Eddy.

[5] (quando dico attore –di cinema o teatro che sia- mi riferisco a una  figura ideale visto che di attori reali – intesi come soggetti in grado di rappresentare diverse maschere  non credo ne esistano quasi più. Ciò obbliga i registi  a ricorrere direttamente alle maschere stesse alias attori/caratteristi a cui non è chiesto di recitare ma solo di essere se stessi).

 

REALISATION

Published at the magazine Mercedes-Benz Registro Italia News (4/2005)

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